- La siccità che ha colpito l’Italia era attesa, sia in base ai modelli climatici che in base ai dati sul crollo delle precipitazioni per tutto l’anno idrografico. Eppure ce ne siamo accorti solo quando da problema ecologico è diventata un problema economico.
- Le soluzioni per non diventare il paese della sete esistono: la pre-condizioni è uscire dall’idea che sia un’emergenza con un inizio, uno sviluppo e una fine e accettare che questa è la normalità.
- All’Italia serve una programmazione pluriennale, coordinata e integrata della risorsa, che passi da un cambio del governo dell’acqua (oggi troppo frammentato), da nuove infrastrutture per lo stoccaggio, dalla depurazione su larga scala e da un’evoluzione digitale del mondo agricolo.
«La regoletta italiana per gestire le emergenze è sempre la stessa: grandi emozioni, scarsa memoria, zero opere di prevenzione. Se la applicassimo anche alla siccità sarebbe un disastro». Sono parole di Erasmo D'Angelis, conoscitore della situazione sul campo, grazie al suo ruolo di segretario generale dell'Autorità di distretto idrografico dell'Italia centrale.
Il punto è che non possiamo permetterci di trattare la siccità come se un post-sisma o la pandemia, perché questa non è un'emergenza con un inizio, uno sviluppo e una fine, ma una nuova normalità destinata a essere costante: la scarsità di acqua non si risolve con proiettili magici, non ci sono né vaccini né lockdown.
Il commissario e lo stato di emergenza nelle regioni del nord vanno bene per tamponare i rischi produttivi dell'immediato presente, ma per il futuro dell'acqua in Italia dovremo riscrivere su basi nuove il patto nazionale che ci lega a questa risorsa.
Il dibattito e la realtà
Come spiega Giulio Boccaletti, esperto di sicurezza idrica e autore del libro Acqua, una biografia «In Italia c'è una completa divergenza tra il dibattito sui problemi idrici e la realtà dei rischi che corriamo. Non è una questione di fare meno la doccia o chiudere il rubinetto quando ci laviamo i denti, ma di una nuova gestione collettiva di un bene fondamentale dello Stato.
Parlare d'altro è non aver capito il problema. In Italia la gestiamo come se fossimo ancora nel regime climatico precedente, il nostro miracolo economico è stato fondato sull'acqua, tanta acqua, ma quelle condizioni non esistono più».
Si parte insomma da una consapevolezza: non sarà più il paese dove siamo nati e cresciuti, fondato sulla sovrabbondanza di acqua, dove in alcune regioni ci eravamo ormai rassegnati con serenità a captare due litri d'acqua per farne arrivare uno al rubinetto e dove si lavano i piazzali dei camion con quella potabile.
Secondo i dati del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, la portata nei fiumi italiani calerà fino al 40 per cento nei prossimi decenni. Su dieci litri d'acqua che dividiamo tra industrie, campi, persone e centrali, quattro non ci saranno più. Quello che si faceva con dieci, andrà fatto con sei. È di questo che si parla quando si parla di futuro dell'acqua.
«Non è una questione di essere catastrofisti», spiega Luca Brocca, dirigente di ricerca dell'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr, «anche se smettessimo oggi di emettere gas serra - e non lo stiamo facendo - avremmo per decenni un'inerzia di riduzione della risorsa. I segnali c'erano, nel 2017 l'abbiamo scampata per un pelo, il campanello era suonato e nessuno lo ha ascoltato. Quest'anno sappiamo della crisi dall'inverno, ma ci siamo svegliati solo quando il problema ecologico è diventato un problema produttivo».
Il Pnacc
In Italia abbiamo un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), nel quale ovviamente si parla molto di risorse idriche. È un testo con una storia strana, è stato scritto, vagliato e offerto dai tecnici alla politica già nel 2017, dal 2018 attende un decreto e l'approvazione, che non è mai arrivata.
Quindi è una policy pubblica fantasma, che tutti conoscono e consultano, ma anche un oggetto il cui unico status legislativo è tentare di uscire dal cassetto in cui è finito intrappolato, attraverso i tre governi che avrebbero dovuto occuparsi di implementarlo.
Il Pnacc divide le misure di contrasto alla siccità in tre categorie: quelle grigie (infrastrutture), quelle verdi (basate sulla natura), quelle soft (basate sulla politica, gli assetti istituzionali, la governance, la partecipazione dei cittadini).
Ecco, le misure grigie consigliate sono tre, ce n'è una verde e ce ne sono ben 24 soft, di cui 16 riguardano cambiamenti di governance. È il nodo che i tecnici hanno individuato come principale: il governo dell'acqua. Perché oggi in Italia quel livello è disfunzionale, frammentato, con tratti di irrazionalità. Andava bene quanto potevamo sprecarne quanta ne volevamo senza rimanere a secco, non ora che ogni falda può fare la differenza tra irrigare o non irrigare.
Una delle previsioni più preoccupanti dell'analisi di rischio idrico del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici è la «competizione sempre più elevata tra gli usi (civili, industriali, agricoli, energetici) quando d'estate la domanda è più alta e la risorsa è più scarsa». Chi ne ha diritto quando diventa un bene limitato e bisogna scontentare territori o settori economici? Oggi non ci sono regole chiare.
E non è un'ipotesi di scuola: nel 2017 ci fu il conflitto tra il lago di Bracciano e il comune di Roma, quest'anno abbiamo visto i sindaci del lago di Garda (unico dei grandi bacini del nord moderatamente in salute) contro il trasferimento di acqua verso il Po in crisi. Secondo il piano di adattamento, il governo futuro dell'acqua richiede una gestione che oggi ancora non esiste: pluriennale, coordinata e integrata.
I poteri sull’acqua
Per farlo, prima ancora delle infrastrutture (ci arriveremo) servono poteri veri per farlo, che oggi sono sparsi tra le pubbliche amministrazioni e ben cinque ministeri diversi. Gli unici enti con la visione di insieme, le autorità di bacino, hanno un mandato che è, come lo definisce Boccaletti, «diagnostico, quando invece potrebbero essere uno strumento funzionale e moderno per gestire i fiumi in modo sovra-regionale. Non è possibile che a Ferrara si possa fare qualcosa a prescindere da quello che si decide a Piacenza».
Concentrare in queste autorità il potere istituzionale di dirigere il flusso non è l'unica soluzione immaginabile, ma in un'epoca di risorsa scarsa non si può prescindere dal ripensare il sistema di governo dell'acqua e curarne la frammentazione.
È questa la situazione in cui ci siamo trovati a giugno: sapevamo che in Italia le precipitazioni erano crollate da mesi e che il conto dell'acqua scendeva verso il basso, ma in mancanza di visione di insieme abbiamo continuato a prelevare il prelevabile da fiumi e bacini, senza nessuna misura di risparmio, finché non siamo arrivati a una fase di crisi acuta.
Non è stata solo una questione di sottovalutazione e incoscienza, le informazioni che i gestori locali e gli scienziati avevano non hanno fatto sistema perché non c'era un canale istituzionale per convogliarle, decidere di intervenire in anticipo e razionalizzare prima di arrivare a razionare.
I dati c'erano, è mancata una filiera chiara della responsabilità in cui inserirli. Ci siamo affidati alla speranza che a maggio piovesse, cosa che effettivamente alcuni anni ci ha salvato. Non ha piovuto: siccità.
Il problema sociale dell'acqua è che si tratta di una risorsa vitale che però non possiamo produrre. Se usiamo la metafora delle risorse idriche come un conto in banca condiviso da tutti i cittadini, noi possiamo solo decidere con saggezza quanto risparmiare e quanto spendere, invece quello che ci viene versato sul conto dipende dal ciclo dell'acqua, dal corretto funzionamento degli ecosistemi naturali, che stiamo manomettendo a colpi di combustibili fossili.
Ci sono soluzioni tecnologiche per «fare acqua», come gli impianti di dissalazione spesso citati in queste settimane, ma non avranno mai la capacità di funzionare sulla scala di un paese grande come l'Italia e sono inoltre costosi ed energivori, quindi sono utili solo su specifiche situazioni locali, come le piccole isole.
A livello nazionale però possiamo attrezzarci a trattenere meglio l'acqua che arriva con le precipitazioni, è una delle soluzioni «grigie» del piano di adattamento: oggi entra nel sistema solo l'11 per cento di quello che piove dal cielo. Troppo poco.
Dal 2017 si parla di un piano proposto da Anbi (Associazione nazionale bonifiche irrigazioni), una rete di invasi per usare di più e meglio la pioggia, che è diminuita ma è diventata soprattutto più irregolare: quando cade, cade tutta insieme.
Tanti fiumi, che per la maggior parte dell'anno sono pietraie, diventano torrenti impetuosi solo con le piogge invernali, ma scaricano la maggiori parte di quell'utilissima acqua a mare perché non siamo in grado di fermarla. «Gli invasi artificiali sono infrastrutture multiuso a basso impatto», spiega D'Angelis.
«Contengono le piene, che anno dopo anno diventano sempre più devastanti, ci permettono di stoccare l'acqua e usarla per l'irrigazione, e sono anche una restituzione ai territori, perché possono avere finalità turistiche». Il Piano di Anbi prevede la costruzione di 10mila invasi medio-piccoli su tutto il territorio nazionale. Servirebbero 10 miliardi, più del doppio delle risorse dedicate dal PNRR alla risorsa idrica.
Next Generation Eu
I fondi Next Generation per l'acqua sono poco più dell'1 per cento del totale, misura di quanto il problema sia stato sottovalutato. «Non ci siamo mai occupati degli invasi perché eravamo convinti ci sarebbe bastato lo stoccaggio delle nevi e dei ghiacciai», spiega Boccaletti: è un buon modo per capire quanto la crisi climatica sia un problema sistemico. I ghiacciai sono collassati, la neve si è dimezzata e quello che provoca pericoli in montagna, causa la sete a valle.
La nostra capacità di invaso oggi è di circa 15 miliardi di metri cubi di acqua, i soli usi agricoli sono 20 miliardi di metri cubi all'anno, non abbiamo abbastanza acqua in deposito nemmeno per una stagione di coltivazioni. La Spagna ha esigenze irrigue simili alle nostre, ma la sua capacità di invaso è di quattro volte superiore.
Il dibattito sulla costruzione di nuovi bacini è aperto, parte delle organizzazioni ambientaliste (come Legambiente) spinge verso altre soluzioni, e tra queste la più interessante è il riuso, l'economia circolare dell'acqua.
È probabile che in una situazione così critica le due soluzioni debbano integrarsi invece di escludersi. Il riuso delle acque depurate è forse la cosa più vicina che abbiamo alla possibilità di «fare acqua», cioè trattare e rimettere in circolo quella già utilizzata, ma per scopi differenti.
È anche una richiesta dell'Unione europea: i regolamenti europei (ultimo quello del 2020) promuovono una filiera delle acque depurate che l'Italia, a parte alcuni esempi virtuosi, è ancora lontana dall'avere.
Per usare la sintesi di Luca Brocca, in Israele, dove piove un terzo che in Italia, l'acqua la usano per tre giri completi, mentre noi continuiamo a lavare l'auto con quella potabile. E non solo: ci raffreddiamo i macchinari, ci puliamo i piazzali, e un terzo del paese non ha nessuna infrastruttura di depurazione.
I progetti in corso di «chiusura del ciclo dell'acqua» sono diversi, ma al momento paghiamo 165mila euro al giorno di sanzioni e a giugno ci attende una nuova procedura di infrazione. Da quasi vent'anni l'Europa sostiene che per gli usi industriali e in parte quelli agricoli (i due terzi di tutto il consumo) bisogna usare quella depurata. Perché non lo si è fatto?
Una risposta sta in un documento ufficiale Ispra, semplice e lineare: «I costi rilevanti necessari per rendere possibile il riutilizzo e i bassi costi delle risorse idriche convenzionali per uso irriguo sono una delle cause del mancato ricorso alla pratica del riutilizzo in Italia».
Insomma, costava meno prenderla dai fiumi che prepararsi a riusarla, anche se sapevamo che la siccità strutturale era in arrivo. L'economia circolare dell'acqua è il fronte più promettente per imparare a vivere in un paese siccitoso. Avessimo iniziato vent'anni fa, non avremmo vissuto un'estate così drammatica.
L’agricoltura spiega tutto
Infine, la siccità del 2022 è essenzialmente un problema agricolo, perché sono gli agricoltori i principali utilizzatori della risorsa. Se l'Italia vuole conservare la sua produzione, deve trovare il modo di garantire acqua d'irrigazione alle aziende, migliorando la governance, lo stoccaggio e la depurazione. Ma sono anche i contadini italiani a doversi attrezzare a cambiare le tecniche d'irrigazione.
L'agricoltura è forse il settore che spiega meglio come transizione ecologica e transizione digitale debbano viaggiare insieme. L'agricoltura di precisione permette di risparmiare fino al 60 per cento dell'acqua utilizzata per irrigare, attraverso sensori, gps, droni, robotica, internet delle cose.
Come dice Boccaletti «Se vogliamo continuare a fare certi tipi di cereali, come grano e riso, dobbiamo estrarre più produzione da ogni singola goccia che utilizziamo. Ma questo tipo di efficientamento richiede visione e investimenti»
. Esattamente quello che è mancato sull'acqua fino a questo momento in Italia. Oggi solo 500mila ettari, circa il 4 per cento della superficie agricola totale, sono entrati nella fase digitale.
Secondo un piano dell'allora ministro dell'agricoltura Maurizio Martina, due anni fa saremmo dovuti arrivare già al 10 per cento. Riuscirci avrebbe significato mettere in sicurezza una parte più grande della produzione di fronte alla siccità.
L'ultima delle 24 misure soft previste dal Piano di adattamento ai cambiamenti climatici si chiama «aumento della consapevolezza nella comunità». Dove per comunità si intendono i cittadini, ma anche le aziende.
Come detto, questo piano è del 2017. Da allora la crisi climatica in Italia ha avuto una svolta drammatica: abbiamo avuto la tempesta Vaia che ha devastato le foreste del nord-est, almeno due estati catastrofiche dal punto di vista degli incendi (2018 e 2021, con forti timori per quella in corso) e, appunto, la peggiore siccità degli ultimi cento anni, quindi la più dura di cui qualunque italiano possa avere memoria.
Significa che «l'aumento della consapevolezza» è una delle poche misure che sono state davvero implementate, solo che non lo hanno fatto le istituzioni italiane, ci ha pensato la realtà fisica del territorio: mentre noi guardavamo da un'altra parte, ci ha colpito con tutta la sua forza.
Quando Vaia ha messo a terra i boschi del Triveneto, ha spinto quelle regioni e in un certo senso tutta l'Italia a ripensare il suo rapporto col patrimonio forestale: è un processo lungo, ma sta investendo le tecniche di selvicoltura sul territorio come la programmazione nazionale nel suo insieme (nel 2022 è stata finalmente pubblicata la prima Strategia forestale nazionale della storia italiana).
La ripresa post-Vaia può essere un modello: la crisi idrica di questa estate è un corso accelerato su come sarà il futuro di questo paese, la buona notizia è che siamo ancora in tempo per attrezzarci ed evitare di diventare la nazione della sete.
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