Negli ultimi vent'anni la nostra repubblica ha concesso a circa un milione di brasiliani e argentini di diventare cittadini italiani. Unico motivo un antenato che aveva solcato l'oceano, un secolo addietro. Facciamo meno figli di chiunque al mondo, ma nel fabbricare italiani adulti non abbiamo rivali. Una legge senza eguali, difatti, ha permesso la nascita sotto la linea dell' equatore di quella che sarebbe la terza città italiana per popolazione. E la macchina avanza a pieno vapore. La domanda che sorge immediata è: perché l'abbiamo fatto? E perché non smettiamo? Non si capisce. Probabilmente perché i pochi interessati alla questione stanno tutti sul versante dei favorevoli allo status quo, per gli interessi di cui parleremo. Intanto il nostro ius sanguinis (diritto di italianità per sangue) stride sempre di più con l'assurda assenza nel nostro ordinamento dello ius soli, quella per cui a milioni di nuovi e veri italiani - per dirla alla Toto Cutugno, così popolare in America Latina - noi neghiamo ancora la cittadinanza, cioè gli emigranti e i loro figli nati qui.

Una legge surreale

Tutto nasce dalla legge 91 del 1992, quella appunto che sancì i diritti dei discendenti della nostra emigrazione. Chi la approvò all'epoca cedette alle pressioni dell'unica parte politica che si occupava delle comunità all'estero (la destra post-fascista), o era intriso di buone intenzioni. Di certo aveva trascurato le basi dell'aritmetica. A ogni generazione i discendenti di italiani come minimo raddoppiano e si stima che possano già essere in cento milioni nel mondo a poter chiedere la cittadinanza. La legge non pone limiti: se vivi a Cordoba o a Porto Alegre e trovi il documento di nascita del nonno di tuo nonno in un piccolo comune della provincia di Treviso, il grosso è fatto. Ci metti poi il tempo corrispondente alle tue finanze: se non hai soldi puoi aspettare anche 15 anni, altrimenti il passaporto italiano te lo compri in pochi mesi. Usando uno dei molti metodi a disposizione: alcuni fraudolenti ma altri offerti dalla nostra legislazione. Di italiano non devi avere nulla, tranne qualche traccia di dna: né il nome, nè l'interesse a viverci o conoscere la nostra lingua. Più che generosa, la legge è surreale: in Argentina, Uruguay e nel sud del Brasile metà della popolazione ha origini italiane. In Uruguay, per esempio, soltanto se sei molto sfortunato non trovi l'avo giusto. È il caso del calciatore Luis Suarez, il quale ha provato a diventare italiano per via della moglie. Solo che in quel caso, decreto Salvini, ci vuole almeno l'esame di italiano. E sappiamo come è finita.

Il business della diaspora

Sebbene i discendenti di italiani (un tempo si chiamavano oriundi) siano ovunque, con il passare degli anni la caccia al trisnonno si è concentrata nei due grandi paesi sudamericani. In Europa hanno già quasi tutti doppia nazionalità; negli Stati Uniti e in Australia avere un secondo passaporto è nell'interesse di pochi. In altri paesi dell'America Latina, Venezuela soprattutto, l'emigrazione è del secondo dopoguerra, c'è poca domanda. Invece in Argentina e soprattutto in Brasile gli aventi diritto sono ormai eserciti di milioni di persone: il grosso della diaspora italiana è avvenuto tra il 1890 e il 1930 e la progressione è aritmetica. Occasione che non poteva non far nascere una serie di business.

Nella fabbrica di passaporti c'è chi vince e ne approfitta (pochi) e chi ci perde, cioè lo stato italiano. Da parecchi anni teniamo impegnate alcune delle nostre sedi diplomatiche più strategiche nel mondo, come Buenos Aires e San Paolo, per sbrigare montagne di pratiche. Le file non finiscono mai. Nella più grande città brasiliana si aspettano dodici anni. In tutto il Brasile ci sarebbero circa 300mila aspiranti italiani in attesa. Il record produttivo è del 2003 a Buenos Aires: sotto la pressione della crisi economica i richiedenti cominciarono a bivaccare in strada, la Farnesina mandò una task force in consolato e si fecero 74.700 cittadinanze. Come tutta Caserta, in un botto. Oggi Argentina e Brasile insieme continuano a fare circa 50mila nuovi italiani all'anno. Con la legge vigente il gioco non può finire. Se l'attesa diminuisce, gli aspiranti aumentano. I consolati vengono foraggiati dalla Farnesina grazie alla pressione della lobby che ruota attorno al business degli italiani all'estero, la quale accoglie il grido di dolore per “lo scandalo delle file” delle comunità oltreoceano e fa arrivare soldi e uomini con periodica precisione. E gli “italianos” aumentano. Poiché nel milione di cittadini creati dall'inizio del secolo ci sono soprattutto giovani, ecco che la corsa adesso è far rilasciare il passaporto per i loro bambini con una semplice domanda. Ed eccoci alla sesta generazione di italianitos e italianinhos, per dirla nelle uniche lingue che conoscono.

Lobby e politica

Tutti i tentativi di cambiare la legge 91 sono andati a sbattere contro l'indifferenza della politica e soprattutto l'agguerrita lobby dell'emigrazione. Che dire di almeno un esame di lingua? Qualche anno di residenza in Italia? Non se ne parla. L'ultimo tentativo è un disegno di legge M5S fermo alla Camera che vorrebbe interrompere la catena e limitare il diritto di cittadinanza alla prima generazione, come ovunque nel mondo. Peccato che nel cuore di chi gestisce la macchina, e cioè la Farnesina, sieda come sottosegretario il più fiero oppositore a ogni riforma, il senatore italo-argentino Ricardo Merlo. Negli ultimi anni la nascita del sovranismo ha fatto il resto. La Lega difende lo jus sanguinis come sana alternativa alla contaminazione che provocherebbe lo jus soli, Fdi per naturale eredità politica. A sinistra non se ne occupa nessuno. E qui arriviamo al vero nodo della questione: i tre deputati e i due senatori che la circoscrizione America del Sud manda in Parlamento a ogni legislatura. Sono loro che gestiscono di fatto gli interessi di associazioni, comitati, riviste, circoli culturali e sportivi, patronati e bocciofile sparsi nel subcontinente in nome della lontana italianità. Quasi tutti inutili, con l'unica encomiabile eccezione, per qualità, delle scuole italiane e di italiano, e degli istituti di cultura (anche se ultimamente si occupano soprattutto di cucina, che tira assai).

Voto all’estero

Il voto degli italiani all'estero esiste dal 2006, battaglia solitaria di Mirko Tremaglia, l'ex ragazzo di Salò che militava con Gianfranco Fini e aveva ottenuto da Berlusconi un ministero ad personam, quello per gli Italiani nel mondo. Per alcuni mesi la questione divenne maledettamente importante a Roma, perché “el senador” eletto in Argentina, Luigi Pallaro, fu determinante per sostenere la risicata maggioranza di centrosinistra. Poi le leggi elettorali cambiarono, un caso Pallaro oggi sarebbe difficile, e i nostri “diputados” sono tornati ad occuparsi dei loro circoli tricolori e soprattutto di non fermare la macchina sforna italiani. E dietro la quale si muove un voto di scambio che commuoverebbe Achille Lauro (il comandante, non il cantante). Ad ogni elezione e referendum nazionale, difatti, svariati milioni di italiani nel mondo ricevono a casa una busta per votare per corrispondenza. La maggioranza non ha la minima idea di cosa si tratti, e comprensibilmente la cestina. Chi invece vota lo fa per indicazione di chi lo corteggia sul territorio o lo ha fatto diventare cittadino italiano. Magari controllando la pletora di agenzie e intermediari che si occupano delle pratiche di cittadinanza. E qui arriviamo infine al cuore del problema: i trucchi e le truffe. Ovvero come saltare le file, o diventare italiani senza nemmeno averci il trisavolo.

Il lato italiano

I consolati italiani in Sudamerica dicono di aver stroncato le frodi con vari mezzi: da maggiori controlli interni a sistemi telematici come Whatsapp o una lotteria da dieci posti al giorno via Web. Ma intanto il core business del passaporto ormai si è spostato in Italia, grazie ad un'altra gentile concessione del nostro legislatore. Dal 2002 alla legge jus sanguinis è stata aggiunta una pezza d'appoggio per alleviare la pressione sui consolati: chi ha i documenti in ordine e risiede in Italia può ottenere il riconoscimento qui, e in tempi brevi. Quello che è successo da allora è lo sbarco nella penisola ogni anno di decine di migliaia di brasiliani che pagano un intermediario per vivere da noi in qualche piccolo comune per qualche settimana, ammassati in appartamenti e letti a castello, evitare la fila decennale e tornare a casa con l'agognato libretto rossiccio con la dicitura “Unione europea”. La percentuale di coloro che lo fanno per qualche sincero interesse per la patria del trisavolo è irrisoria. Tutti gli altri poi vanno a vivere in altro paese della Ue, o vogliono evitare il visto per gli Usa o “per garantire un futuro ai figli”, come dicono.

Scandali in provincia

Quello che il “turismo da passaporto” ha provocato, e non ci voleva un genio, è una raffica di abusi e scandali che appaiono con regolarità sui giornali di provincia. “Scoperto traffico di passaporti”. È già capitato in decine di comuni piccoli e grandi, da nord a sud. Succede che la residenza in Italia, richiesta dal protocollo, è quasi sempre fittizia. Le agenzie che portano qui i brasiliani allungano mazzette a vigili urbani e addetti all'anagrafe per chiudere un occhio e far arrivare l'ok alla cittadinanza nel giro di poche settimane. Le gang brasiliane, se necessario e con un forte ritocco al compenso, procurano anche il nonno che non è mai esistito, taroccando le carte nelle anagrafi brasiliane. La truffa a volte rincula sul proprio richiedente: molti brasiliani hanno attraversato l'oceano invano, l'agente è scappato con i soldi. Leggendario fu il caso di Ospedaletto (Lodi) dove nel 2018 a fronte di 1.300 residenti veri c'erano iscritti all'anagrafe 900 concittadini di Neymar. Buona parte di loro non aveva mai nemmeno messo piede in paese. Anche sul fatto che almeno 30mila brasiliani diventino italiani ogni anno burlando le nostre leggi non importa a nessuno. Per qualche motivo misterioso il gioco deve continuare.

  

  

  

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