- Italia Turismo, controllata dall’Agenzia nazionale, possiede otto resort. I bilanci rivelano debiti disastrosi. È il dossier più caldo sul tavolo del successore di Domenico Arcuri: in 15 anni bruciati 86 milioni di euro.
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Le cose sembrano andare meglio nel 2021, anno in cui il bilancio segna un utile di 2,22 milioni. In realtà si tratta di un gioco di prestigio contabile: Italia Turismo è indebitata fino al collo con le banche, che pretendono 51 milioni di euro e sono arrivati addirittura a pignorare i conti correnti.
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A questo punto è intervenuto direttamente Domenico Arcuri, quando era ancora capo di Invitalia, che tratta un’operazione di saldo e stralcio: un accordo “scontato” in cui Invitalia tira fuori 40,5 milioni di euro e le banche si accontentano.
È forse il più spettacolare buco nell’acqua della ventennale gestione di Invitalia targata Domenico Arcuri e uno dei dossier più scomodi sulla scrivania del suo successore, Bernardo Mattarella. È probabilmente l’unica azienda turistica a cui il Covid ha fatto bene ai bilanci: nel 2020, anno in cui le attività sono rimaste sostanzialmente ferme a causa della pandemia, le perdite si sono ridotte.
È un’azienda di stato, residuo malandato dei tempi in cui il governo possedeva fabbriche, banche e infrastrutture. Si chiama Italia Turismo, società pubblica interamente partecipata da Invitalia, che ancora oggi possiede otto villaggi vacanze per quasi settemila posti letto e diversi terreni edificabili in posizioni molto ambite.
Otranto in Puglia, Stintino in Sardegna, Simeri in Calabria, Sciacca in Sicilia: località e regioni in cui il turismo è un affare cresciuto a doppia cifra negli ultimi quindici anni.
Rosso profondo
Negli stessi anni, tra il 2005 e il 2020, Italia Turismo ha bruciato 86 milioni di euro. «Le banche creditrici sono arrivate a pignorare i conti correnti finché non è intervenuta Invitalia a pagare i debiti», racconta un dirigente della società pubblica, sotto garanzia di anonimato. I bilanci confermano lo scenario illustrato dalla fonte: negli ultimi quattro anni Italia Turismo ha perso 7,21 milioni (2018), 7,26 milioni (2019) e “solo” 2,49 milioni nel 2020, quando le attività dei villaggi turistici sono state pressoché ferme. Le cose sembrano andare meglio nel 2021, anno in cui il bilancio segna un utile di 2,22 milioni.
In realtà si tratta di un gioco di prestigio contabile: Italia Turismo era indebitata fino al collo con le banche, che pretendevano 51 milioni di euro e avevano pignorato i conti correnti. A questo punto è intervenuto direttamente Domenico Arcuri, quando era ancora capo di Invitalia, che ha tratta un’operazione di saldo e stralcio: un accordo “scontato” in cui Invitalia ha tirato fuori 40,5 milioni di euro e le banche si sono accontentate.
E i dieci milioni di differenza tra debito teorico e pagamento effettivo? Sono diventati come per magia una plusvalenza nel bilancio di Italia Turismo che, senza questa magia contabile, si sarebbe chiuso con una perdita di 8 milioni di euro. E pazienza se l’azienda resta in vita solo grazie alle continue trasfusioni di sangue della controllante Invitalia, arrivati alla cifra iperbolica di 86 milioni di euro.
Per ritrovarsi, tra l’altro, con una serie di incompiute e di ecomostri che periodicamente finiscono nelle trasmissioni tv: dal “Mammuzzone”, mega scheletro di cemento immerso nella macchia mediterranea di Simeri Crichi, in Calabria, fino al villaggio abbandonato e vandalizzato a Pisticci, in provincia di Matera.
Potenziale sprecato
Eppure le potenzialità per una gestione sana ci sarebbero tutte: nel tesoro di Italia Turismo ci sono autentici gioielli come Le Tonnare a Stintino, 600 posti letto in un antico stabilimento per la lavorazione del tonno affacciato sul mare amatissimo da Enrico Berlinguer, e a due passi dalla Pelosa, forse la spiaggia più incantevole della Sardegna; o Le Cale ad Otranto, struttura con 424 camere che dispone di una stupenda insenatura privata a pochi metri dal tratto di costa dove Flavio Briatore voleva costruire il suo Twiga salentino; o il Sibari Green Village, resort a 4 stelle con tre piscine e quattro ristoranti edificato tra il mar Ionio e a gli scavi archeologici magnogreci. Per non parlare dei terreni edificabili, con progetti edilizi approvati e spesso con finanziamenti pubblici già disponibili: a Siracusa, sul mare di contrada Arenella con vista sul centro storico, gioiello del barocco siciliano o a Sciacca, in provincia di Agrigento, con tanto di fonte termale in concessione.
Ma perché lo stato, dopo aver ceduto beni molto più strategici (dalle autostrade ai giacimenti di gas, dai gestori telefonici alle acciaierie) si è tenuto la holding dei villaggi turistici? «Qualche piccola clientela e soprattutto rapporti di potere» confida ancora il dirigente. La clientela è intuibile: i tre villaggi turistici vicino Catanzaro impiegano 350 persone a stagione.
I rapporti di potere anche: a metà degli anni 2000 Italia Turismo è stata una specie di salotto riservato dell’impresa italiana, visto che il 49 per cento delle azioni era in mano a una società che vedeva insieme Pirelli Re, la Ifil della famiglia Agnelli, Gabetti e il gruppo Marcegaglia. Peraltro Emma Marcegaglia ne era vicepresidente. Un salotto riservato a diretto contatto con una delle più controverse imprese turistiche dell’epoca: la Valtur.
Gran parte dei villaggi turistici, specie in Calabria e Puglia, erano infatti gestiti dalla società di Carmelo Patti. Poi è arrivato il sequestro dell’impero dell’imprenditore di Castelvetrano accusato di essere l’uomo di paglia di Matteo Messina Denaro e il default dell’azienda nel 2011. Da allora Italia Turismo naviga a vista, senza un vero partner industriale.
Vendo non vendo
È così che nel 2017 l’amministratore delegato Domenico Arcuri si è deciso a mettere sul mercato la società con tutti i suoi principali asset: gli otto villaggi turistici e i terreni edificabili. E si è arrivati così al pasticcio più grosso. La burocrazia lenta, gli uffici che se la prendono comoda: tra la decisione e il bando passa un anno. È il 2018 quando si fa avanti un compratore: è Human Company, importante gruppo turistico toscano che possiede il brand “mercato centrale” di Firenze, Roma e Milano. La famiglia Cardini Vannucchi mette sul piatto una bella cifra: 137 milioni di euro per rilevare tutto il pacchetto immobiliare (e gli ingentissimi finanziamenti per ristrutturarlo: circa 100 milioni di euro).
Ma bisogna seguire i tempi, lenti, della burocrazia. È il 2019 quando Invitalia accetta l’offerta e sottoscrive un accordo. Tutto però procede senza fretta e nel marzo 2020 il paese è ostaggio della pandemia. Il turismo è diventato un affare in perdita, Human Company si tira indietro e l’accordo salta, tanto che diversi villaggi rimangono chiusi durante quella stagione segnata dal virus.
La società privata, interpellata da Domani, ha preferito non commentare. L’ufficio stampa di Invitalia invece si è affidata a una breve nota stampa: «L’operatore privato con l’avvento della crisi pandemica ha richiesto in un primo tempo la sospensione dell’operazione e successivamente ha rinunciato. Gran parte del patrimonio nel 2022 è stato apportato a un fondo immobiliare le cui quote sono state trasferite a Invitalia».
Traduzione: la nuova gestione di Bernardo Mattarella ha trasformato Italia Turismo in una bad company, che contiene solo debiti e immobili in rovina, trasferendo gli ultimi villaggi funzionanti sotto il controllo diretto di Invitalia.
Un’operazione che di fatto significa l’addio alla vendita in blocco ai privati e quindi al risanamento degli 86 milioni di debito lasciati da Arcuri (sui quali la Corte dei conti non ha mai messo becco). «Qualcuno si starà mangiando le mani per non aver chiuso l’accordo quando ancora si poteva», commentano nei corridoi di Invitalia. Ma ormai è troppo tardi. (1.continua)
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