C’è chi non rinuncia a mangiarlo perché fa parte della tradizione ed è un settore economico irrinunciabile. Serve bilanciare il benessere dell’animale e l’impatto sull’ambiente
Sono molto curiosi, tanto che devono essere stimolati, o si annoiano. Sono intelligenti, rispondono al nome quando vengono chiamati. Soffrono di stress, come tutti. Nel momento in cui si sceglie di mangiare il maiale, come per gli altri animali, è inevitabile fare i conti con il sistema che c’è dietro il consumo di carne.
Le ong Essere animali e Last chance for animals hanno svolto delle indagini in alcuni allevamenti, riprese da Report, dove hanno riscontrato delle procedure errate per l’abbattimento o per lo smaltimento dei farmaci. I recenti casi di peste suina africana, per cui non esistono cure o vaccini, e che si può prevenire solo isolando gli animali in modo da non renderli veicoli, hanno riaperto diverse domande sul funzionamento degli allevamenti. Dal punto di vista del benessere del maiale e dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Se l’ansia causa scarti
L’Unione europea sta finanziando alcuni strumenti per poter intervenire, tra cui il progetto SoundWel: un algoritmo in grado di interpretare le emozioni dei maiali, basandosi sui versi che emettono. Un esempio di suoni è stato pubblicato l’anno scorso dal New York Times, per chi volesse affinare l’orecchio: un grugnito di soddisfazione quando ritrovano un amico, uno squittio di ansia quando incontrano qualcosa di sconosciuto. Il sito spiega che in questo modo gli allevatori «potranno monitorare e migliorare il benessere dei suini, minimizzando il loro stress».
Ci sono in realtà determinate linee genetiche nei suini che indicano la predisposizione allo stress: «In Italia questi tipi genetici sono poco frequenti. Qui si allevano suini pesanti, con carni di ottima qualità per fare i prodotti stagionati, che non presentano questo gene», spiega a Cibo la professoressa Luisa Antonella Volpelli, docente di Nutrizione e alimentazione animale all’università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Gli animali che non hanno questo gene, tuttavia, potrebbero comunque soffrire di stress durante il trasporto verso il macello. Tra i rischi, morire di ipertermia prima della macellazione, o quello di produrre troppo acido lattico, che va a incidere sulle proprietà organolettiche della carne: questa risulta così Pse, pale, soft, exudative. Pallida, troppo morbida e con un effetto “bagnato”: da scartare. Oltre «all'aspetto etico di assicurare all’animale il maggior benessere possibile anche nell’ultima fase della sua vita», aggiunge Volpelli.
In Italia e in Europa
A livello culturale, osserva chi si occupa di produzioni zootecniche, è difficile che l’Italia abbandoni la carne. Si contano almeno nove milioni di capi ogni anno, secondo i dati Istat: nel 2021, la macellazione dei maiali ha rappresentato il 66 per cento della macellazione in generale, con una crescita del 3,2 per cento di capi rispetto all’anno precedente. Consumare maiale fa parte della tradizione e, come spiega la professoressa Marcella Guarino del dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’università Statale di Milano, è un mercato che genera ricchezza.
È anche uno dei più regolamentati: «L’Europa è avanti anni luce rispetto ad altre aree per quanto riguarda la legislazione sul benessere dei suini», dice Volpelli. Ai suini dovrebbero essere garantiti «spazio a sufficienza, una corretta alimentazione e buone caratteristiche del microclima dell’ambiente in cui si trovano, la pulizia degli ambienti di allevamento, luce, strumenti di arricchimento obbligatorio, con cui possono essere stimolati, e la mancanza di oggetti con cui invece si possono ferire».
Ridurre l’impatto
Dove ci sono le leggi, non sempre è fattibile la pratica. Specialmente quando si tratta di ambiente. Prima di tutto, ci si trova davanti a un apparente paradosso: «I reflui sono più facili da tenere sotto controllo dove gli spazi sono ridotti, quindi negli allevamenti intensivi, rispetto a quelli estensivi», spiega Guarino, che da anni studia le smart technology per contenere l’impatto ambientale.
Il principale rischio per l’ambiente è dato dalle deiezioni dell’animale, come le urine, che generano ammoniaca. Il problema, per Guarino, può essere facilmente risolto con l’utilizzo di una lettiera profonda, che permette di drenare la parte liquida sul fondo, mantenendo sempre asciutto lo strato più superficiale. Oltre a evitare la dispersione dell’ammoniaca nell’aria, è possibile “riciclare” questo genere di rifiuti: «Gli allevatori sono incentivati a investire negli impianti di biogas o biometano con cui possono trasformare le deiezioni in energia».
Quello che ancora non avviene è l’installazione di sistemi che possano pulire l’aria in uscita. «Durante l’estate si ventila molto e tutti gli inquinanti escono nell’ambiente», dice Guarino. Per poter canalizzare l’aria che viene immessa all’esterno non ci sono però incentivi economici. «L’unico allevatore che ha messo uno scrubber per purificare l’aria in uscita l’ha fatto perché i vicini si lamentavano dell’odore».
Chi sceglie di non mangiarli
Anche chi non elimina i prodotti animali, supporta un aumento degli alimenti vegetali proprio per preservare l’ambiente. «Mantenere un giorno a settimana in cui si consumano solo proteine vegetali avrebbe un buon impatto sull’inquinamento», dice la dottoressa nutrizionista Valentina Galiazzo. Che non demonizza il consumo di carne, ma si augura che questa consapevolezza aumenti sempre di più.
Chi si impegna invece per sensibilizzare su una dieta completamente vegana sono i volontari dei santuari.
Si tratta di rifugi che accolgono gli animali da reddito che per un motivo o per l’altro non sono finiti al macello.
Arrivano da allevamenti che sono stati chiusi, o da sequestri di allevamenti abusivi. A seconda dello spazio a disposizione gli ospiti sono bovini, conigli, cavalli. Anche suini.
«Non puzzano, anzi, sanno di liquirizia. Tutto dipende dalle occasioni che hanno per pulirsi», spiega Lisa Marino, presidente di “L’arcobaleno di Olivia”. Parla dei quattro maiali del santuario Nelloporcello, in provincia di Como, gestito dalla sua associazione. Il rifugio prende il nome dal primo suino arrivato, Antonello. Lui e Jenny vengono da un allevamento, Juanita da un sequestro, Lenticchia è la figlia di Juanita. Nei santuari di norma non nascono maialini: «Juanita era già incinta, e quando succede non li separiamo dai figli».
Nelloporcello fa parte di una rete di rifugi, che si è data una carta dei valori. «Le persone che gestiscono il santuario, con un ruolo di responsabilità, devono per primi sentire e mettere in pratica una scelta di vita nonviolenta, antispecista e vegan, sganciata dallo sfruttamento degli animali in genere», si legge al primo articolo. Con i suoi profili social, il santuario cerca infatti di informare il pubblico: condivide le foto dei maiali che vivono lì, contesta i miti che girano («Non sono aggressivi, ma come tutti gli esseri viventi non vanno provocati»). Non vengono utilizzati a nessuno scopo, nemmeno didattico. «Li lasciamo vivere nel modo più libero possibile, tenendo conto che non sarebbero in grado di sopravvivere allo stato brado». Sono animali da più di 300 kg, ma non sono più all’ingrasso: «In allevamento vivono in media sei mesi. Loro sono arrivati a sei anni».
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