Alla vigilia del nuovo campionato di pallacanestro, intervista all’allenatore della Virtus Bologna e cittì della Nazionale di Lettonia. La sua infanzia, la sua formazione, le sue idee. «Il basket è di chi lo gioca. Sono un artigiano, vado al lavoro ogni giorno per renderlo armonioso. Il protezionismo non valorizza il prodotto locale»
Con Luca Banchi è facile perdersi e ritrovarsi. È un uomo che sa di casa e valori. Forse per questo ama definirsi un artigiano del basket. E però l’allenatore della Virtus Segafredo Bologna è figlio del futuro. Ha girato il mondo, allenato in Germania, Grecia, Russia, Stati Uniti. E raggiunto un quinto posto mondiale da ct della Lettonia, un miracolo. «Mi sento un allenatore europeo. Ai giovani coach dico: andate all’estero perché sono esperienze formative».
Nada, sua madre, figlia di contadini che avevano fatto la guerra, ha 87 anni e lo chiama ancora dopo le partite. Lo ha fatto pure dopo la sconfitta contro l’Olimpia Milano in Supercoppa. Prese la patente per aiutare i figli a coltivare lo sport, anche se nessuno a casa Banchi l’aveva mai fatto prima. Poerio, il padre, era stato riformato al militare per insufficienza toracica. «Vengo da una famiglia normalissima». Si spostavano su una Giardiniera, «con il tettuccio apribile, bellissima. Gli allenamenti finivano a tutte le ore, ma il piatto sulla tavola a casa mia non è mai mancato».
È a questa semplicità che Banchi ha attinto da quando allena. Continua a farlo, quasi quarant’anni dopo la prima volta. «Parlo di un basket semplice, che è quello più complicato da insegnare. Pochi concetti ma efficaci. Un po’ come il calcio di Cruijff». C’è qualcosa di calmo e magnetico nella voce di Banchi, 59 anni, che oggi a Trapani comincia la sua seconda stagione con le Vu Nere. Un campionato bello e possibile. Più l’Eurolega, ovviamente.
«Il basket italiano sta vivendo un momento positivo. Si misura con i palazzetti pieni. A dispetto di un’impiantistica non adeguata. Ma se ci sono tanti imprenditori che vedono il basket come un veicolo vuol dire che siamo sulla strada giusta».
Sarà sempre un duello Milano-Bologna. Fa bene questo dualismo?
Un dualismo non è monopolio, e questo va bene. Bisogna dare merito ad Armani e Zanetti, imprenditori illuminati e capaci di gestioni virtuose. Il dualismo sembra aver spostato l’asticella verso l’alto. Ci sono società che stanno creando squadre competitive per alzare il loro livello.
Che campionato si aspetta?
Interessante. Ma lo non lo dico io: presenze, esposizione mediatica, c’è grande voglia di questo sport. L’ho visto a Bologna con un grande riconoscimento europeo, nazionale e cittadino
Cosa ha trovato a Bologna?
Una città bellissima, una passione smisurata e un tifo che ci ha aiutato a tenere alte le richieste della squadra. Bologna è più che mai Basket City.
Il basket cosa rappresenta per lei?
La spina dorsale della mia esistenza. Uno sport scoperto non per vocazione, ma perché in famiglia fratello e sorella ci giocavano. Nell’immediato non è stato un grande amore
Odio?
No, era più disinteresse. Mi piaceva andare dai nonni e con gli amici più che agli allenamenti. Ma dopo ne sono stato travolto. La mia famiglia si trasferì da Grosseto a Montecatini. Lì scoprii che la pallacanestro era un’occasione per socializzare in un paese dove il basket era la religione.
Come definirebbe il suo?
Rifuggo l’idea di una filosofia Banchi, un gioco Messina… No, il basket è di chi lo gioca. E io sono un artigiano del gioco, vado al lavoro ogni giorno per renderlo armonioso. Devi riuscire a portare delle individualità di spicco a parlare lo stesso linguaggio. Quando c’è armonia percepisco che il mio lavoro si è completato. E non c’è più bisogno dell'allenatore. Modulo i toni degli strumenti, non mi sento una guida costante o imposta. Propongo nella speranza che mi si voglia seguire.
E succede?
Il basket che sogno è un basket libero, armonico, dove i giocatori abbiano la possibilità di prendere iniziative e corrette decisioni. Talvolta mi è successo di vederlo così. Sono estasi professionali. Il miglior complimento è dirmi che si notano i valori caratteriali, il riflesso del mio modo di comportarmi.
Chi l’ha influenzata?
La mia formazione è legata soprattutto al Don Bosco Livorno. Ho avuto porte aperte con i giovani Messina, Caja, Crespi quando erano nei settori giovanili. Il mio metodo nasce dalla possibilità di aggiornarmi, di condividere idee, e in queste persone ho sempre trovato disponibilità e generosità.
Quanto è cambiato il basket nella globalizzazione?
È cambiato radicalmente più di ogni altra disciplina. Modifiche di regolamento, capacità di adattarsi dei giocatori. Adattamenti fisici, tecnici, tattici. Questo sta diventando sempre più lo sport dei giocatori. L’allenatore deve fornire una servant leadership, una leadership al servizio di giocatori. Che sono grandi atleti. Tu puoi solo ipotizzare cos’è la visione, ma loro la realizzano.
Come si fa?
“I giocatori di basket sono tra gli atleti più completi al mondo per esplosività, destrezza, forza, tutte qualità difficili da combinare. Sono dei supermen, degli ironmen. Che costringiamo a uno stress fisico incredibile visti i calendari.
Si gioca troppo?
I calendari stanno provocando una incidenza sugli infortuni sempre più alta che va a danno della longevità. Ma sotto il profilo fisico i giocatori hanno completezza e comprensione del gioco, hanno sviluppato una capacità incredibile di agire in tempi e spazi sempre più stretti.
Quanto c’è di scientifico?
Alla base c’è una ricerca maniacale, i numeri, l’intelligenza artificiale. In qualche modo la usiamo anche noi.
Le piace?
Io sono nel quarto quarto della mia carriera cestistica, non ce la faccio a stare dietro a queste cose. So che non avrò il tempo di misurarmi con questa realtà.
E la gestione dello spogliatoio com’è cambiata?
Noi abbiamo il compito e il potere di veicolare la passione dei ragazzi che giocano per noi. Si dice tanto che le nuove generazioni hanno pochi stimoli e interessi. La realtà è che sono più esigenti, hanno una visione diversa. Si tratta di appassionarli.
I veterani come Belinelli e Hackett come si motivano?
Non credo in maniera diversa dagli altri. Ma non posso pensare di essere equo, se trattassi tutti allo stesso modo sarei un impostore. Cerco di essere giusto.
Come si allena la Lettonia?
Sono pochi e questo rende il lavoro del ct più semplice. Dicono che forse c’è qualcosa di lettone in me o di mediterraneo in loro e io gliel’ho tirato fuori. Ci siamo trovati nel momento ideale. È stata strana la proposta ricevuta, assurdo accettarla.
L’hanno beatificata per il quinto posto?
Sono arrivato lì nell’assoluta indifferenza. Porziņģis non mi aveva nemmeno riconosciuto. Lo incontrai per strada, pensava che fossi uno che voleva l’autografo. Mi dovetti presentare. Per dire come è nato tutto. Oggi, oltre ai riconoscimenti, ai bagni di folla, oltre al parlare davanti alle piazze gremite con inni, bandiere e presidente della repubblica, la gente ferma la macchina per farsi i selfie. È una rivoluzione. La mia avventura finirà dopo l’Europeo.
Perché?
Mi rendo conto del sacrificio che devo fare per conciliare il doppio ruolo. Non allenerò mai più una nazionale e un club, è pesantissimo. E poi è un ciclo naturale, mi è successo anche in passato. I miei successori devono avere la possibilità di sfruttare l’inerzia positiva. Siamo a caccia dell’onda perfetta, e se ci monta sopra un altro va bene lo stesso.
Una volta ha detto di sentirsi un allenatore europeo. Perché?
Lo sport non è politica, dimostra quanto possiamo e dobbiamo essere cosmopoliti, io mi sento allenatore europeo non solo per questioni linguistiche e culturali, non ci sono mappe, confini. Il basket forse prima di altri ha aperto all’afflusso di giocatori di diverse nazioni, e poi agli allenatori. Il confronto ha permesso a tutti di crescere. A livello sportivo oggi il confine non è nemmeno globale, figuriamoci se può essere continentale, è già riduttivo definirsi allenatori europei.
Niente protezionismo?
No, non sarà un vincolo regolamentare a valorizzare il prodotto locale. Dobbiamo investire sulla qualità, sui giocatori che abbiano capacità di tenere il livello che c’è. È una visione da condividere tra allenatori, proprietà, tutti. Siamo figli della cultura del risultato e questo non coincide con il valore.
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