L’eroe buono che non ha avuto in dono il lieto fine è Luca Magni, di professione ragazzo qualunque: cresciuto a Monza, orfano di papà da adolescente, aveva lasciato Giurisprudenza per impiegarsi come tecnico in una concessionaria dell’Unilever. Si occupava di pulizie ospedaliere.

Da buon brianzolo, appena aveva potuto si era messo in proprio e, affiancando la zia che spazzava case e uffici, era diventato titolare della Ilpi, una ditta specializzata in uso di macchinari necessari a disinfettare grandi superfici.

Intanto, un signore di neanche cinquant’anni, Mario Chiesa, cresceva come eroe cattivo. Di mestiere faceva l’assessore comunale in quota partito socialista e covava l’ambizione di diventare sindaco di Milano. In quegli anni, il Psi di Bettino Craxi era il movimento politico della «Milano da bere», del rampantismo sociale, in opposizione al contegno ecumenico della Democrazia cristiana.

Nel 1986, Chiesa era stato piazzato dai socialisti meneghini alla presidenza del Pio Albergo Trivulzio, la residenza per anziani in cui il Covid ha fatto razzia nel 2020. Nel suo discorso di insediamento, aveva annunciato vari tipi di pulizie: quella contro i furbetti dell’armadietto, perché un infermiere era stato pizzicato a rubacchiare i risparmi degli anziani, e quella materiale, giacché l’istituto versava in condizioni igieniche pietose.

L’appalto

Magni aveva deciso di candidare la sua Ilpi per l’appalto delle pulizie alla cosiddetta Baggina, perché era stata costruita lungo lo stradone che attraversa Baggio, municipio di Milano ovest. Di lavoro ce n’era: l’istituto non solo era sozzo ma si stava ampliando con nuove ali, destinate alle residenze protette per i non autosufficienti.

«Un giorno – ha raccontato – fui chiamato dal presidente, questo Chiesa, che conoscevo di vista. Sapevo che era una persona arrogante. Verso le diciotto, era solito fare il suo giro e trattava male tutti: parolacce agli operai, scortesie, lamentele per i lavori anche se non ne capiva un accidente». La conversazione era stata spiccia: «Magni, per lavorare con noi mi deve dare il 10 per cento». Clic.

Per due anni, Luca Magni ha accettato il ricatto. Di tanto in tanto, passava nel suo ufficio con i soldi: Chiesa finiva le sue telefonate e poi lo riceveva. Ritirava la tangente «e manco salutava: mi dava la mano così, giusto perché gliela allungavo io».

La ditta di Magni si era aggiudicata un altro appalto, per una casa di riposo a Merate. Un lavoro da centoquaranta milioni di lire. Chiesa era ingordo: saputo che la Ilpi si sarebbe occupata anche di quell’ente che era sotto la sua responsabilità, aveva battuto ancora cassa.

 «Mia sorella era stata ricoverata in ospedale e non avevo tempo per rispondere alle telefonate di Chiesa. Finché la sua segretaria non mi raggiunse, facendomi presente che, a loro, della salute di mia sorella non gliene importava nulla».

La denuncia

Quella frase scatena una ribattuta alla Balilla, il ragazzotto che aveva tirato una pietra al soldato austriaco a Genova facendo scoppiare l’insurrezione generale. Magni contatta l’associazione commercianti, che gli dà il numero di un capitano dei carabinieri, Roberto Zuliani. Venerdì 14 febbraio 1992, nella caserma di via Moscova a Milano, si incontrano.

Il capitano gira la denuncia al pubblico ministero di turno – un certo Antonio Di Pietro, che stava per diventare l’uomo più famoso d’Italia ma non lo sapeva – e si decide di agire il lunedì successivo, il 17 febbraio.

Quel giorno, all’ora di pranzo, Magni si presenta in caserma e gli vengono consegnati sette milioni di lire, siglati da Zuliani e dal magistrato. Si reca al civico 8 di via Marostica a Milano, quasi sviene per la tensione ma consegna i soldi, chiusi in una valigetta – poi venduta in un’asta benefica per la legalità, quindici anni dopo, da Massimo Cirri di Caterpillar. Mentre esce dall’ufficio, i carabinieri fanno irruzione e arrestano in flagrante Mario Chiesa.

Da notiziola di cronaca milanese, l’arresto di Chiesa diventa l’inizio della fine della Repubblica italiana per come era nata dalla Costituzione. Craxi ha la cattiva trovata di dissociarsi in diretta televisiva da quel Chiesa, «un mariuolo che getta un’ombra sul partito».

Intanto l’ex moglie di Chiesa, la signora Sala, passa al suo avvocato – Annamaria Bernardini de Pace – le carte del divorzio, perché costui si ostinava a non pagare il dovuto: ma lei lo sapeva, dei conti segreti e dei soldi extra che gli permettevano una vita da nababbo. E tutto finisce in mano a Di Pietro.

Sentitosi scaricato, Mario Chiesa cambia atteggiamento e, dal carcere, chiede un colloquio col pm raccontando non solo la sua storia di mela marcia, ma pure tutto il resto del cestino.

Fu vera gloria?

Per i mesi successivi i giornali vengono riempiti dalle notizie degli avvisi di garanzia ai ministri e dei suicidi degli inquisiti. I telegiornali aprono le loro edizioni sui segretari di partito sotto torchio e sui massimi vertici industriali decapitati. Pian piano ci si dimentica di Magni e di Chiesa.

Da salvatore nazionale, detonatore di Mani Pulite e vittima del malaffare prima e di un lungo assedio mediatico poi, Magni finisce col dichiarare fallimento in solitudine. Non gli rinnovano le commesse neanche le fondazioni confessionali per cui già lavorava, come la Don Gnocchi.

I colleghi gli rimproveravano di aver fatto saltare il banco. E la giustizia gli recapita un’accusa di bancarotta fraudolenta perché la zia, nel chiudere la Ilpi, aveva pasticciato con un assegno all’Inps.

Assolto ma segnato dallo stress, riesce a tornare nel mondo dell’impresa. Oggi, a più di sessant’anni, lavora come responsabile commerciale di una società di servizi e, per proteggere la famiglia e sé stesso da quei ricordi più amari che dolci, è riluttante a concedere le interviste in occasione dell’anniversario di quel 17 febbraio 1992.

Chiesa se l’è cavata quasi meglio. È stato condannato a cinque anni e quattro mesi in Cassazione. Nel marzo 2009 e, ormai in età da pensione, è tornato in galera per truffa ai danni dello Stato e associazione per delinquere: gestiva una ditta di smaltimenti di rifiuti, si aggiudicava appalti per poi corrompere con buoni benzina camionisti e addetti perché smaltissero più del dichiarato, o conferissero in discarica rifiuti non trattati. Altri tre anni di reclusione, patteggiati.

Neanche il tempo di raccapezzarsi e ha bussato la giustizia tributaria: anche se le abbiamo sequestrato, ai tempi, dieci miliardi di lire di tangenti, su quei soldi lei deve pagare le tasse perché, comunque, li ha incassati.

L’ultima traccia porta a un legale che, nel 2015, ha tentato di bloccare per suo conto la serie televisiva dedicata a Tangentopoli perché, nella ricostruzione, si vede Chiesa fingere una sosta fisiologica per liberarsi di una tangente, incassata prima di quella di Magni, gettando la mazzetta nel water. Un fatto, si legge nel ricorso, «gravemente lesivo dell’immagine e del decoro dell’ingegner Chiesa».

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