- Il comune non è più il maficipio, il boss don Tano è morto, ma il figlio di Gaetano Badalamenti chiede la restituzione delle chiavi di una casa di famiglia, confiscata in via definitiva e ribattezzata ‘casa Felicia’.
- L’iniziale correzione del patrimonio confiscato è sbagliata perché quell’immobile è frutto, scrivono i giudici in una sentenza del luglio 2020, di una donazione e non era confiscabile e così torna nella disponibilità degli eredi del boss.
- Il rampollo riscrive la storia. «Mio padre criminale? In casa non alzava la voce e non faceva male a nessuno».
Il comune di Cinisi, in provincia di Palermo, non è più il ‘maficipio’, il boss don Tano è morto, ma il figlio del mafioso Gaetano Badalamenti vuole la restituzione delle chiavi di una casa, confiscata in via definitiva e ribattezzata ‘Casa Felicia’. Nei giorni dell’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, politico e attivista di Democrazia Proletaria, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, l’esecuzione dell’ordinanza di restituzione dell’immobile scuote la famiglia e il movimento antimafia.
Il 10 maggio c’è stato l’ultimo atto e ora il giudice dell’esecuzione dovrebbe decidere sul ricorso del comune, per il momento l’arrivo dell’ufficiale giudiziario per la restituzione delle chiavi è solo rimandata. «Quella di casa Felicia (la madre di Peppino, scomparsa nel 2004, ndr) è una vicenda scandalosa. C’è una disputa legale tra comune e il figlio di Badalamenti per la possibilità che quest’ultimo ne rientri in possesso. Se succedesse sarebbe il simbolo di una sconfitta per le istituzioni e per l’antimafia», dice Luisa Impastato, presidente di Casa Memoria e nipote di Peppino Impastato.
Il coraggio contro il depistaggio
Impastato viene ucciso il 9 maggio 1978. Il corpo di Peppino fu trovato dilaniato perché i mafiosi che lo uccisero simularono un attentato fallito ai binari della ferrovia. Le prime ricostruzioni anche dei carabinieri indicarono la pista terroristica. «Noi lo capimmo subito che Peppino era stato ucciso dalla mafia, altro che attentato, ma le indagini furono depistate, il luogo del delitto contaminato, le prove ignorate», dice Pino Manzella, uno dei compagni di Peppino. Dopo l’omicidio le indagini sono piene di errori e omissioni.
L'impegno degli amici conduce le indagini verso un'altra verità, anni dopo inizia il processo con la condanna di Tano Badalamenti come mandante dell'omicidio. Per scoprire eventuali responsabilità nel depistaggio iniziale dopo l’omicidio c’è stata un’indagine che ha coinvolto anche Antonio Subranni che si è occupato del caso, indagine archiviata per intervenuta prescrizione. Il generale dei carabinieri viene coinvolto e assolto successivamente anche nel processo sulla trattativa stato-mafia.
Peppino si era candidato alle elezioni comunali con Democrazia Proletaria, fu eletto da morto ammazzato. Era riuscito in vita a rompere i rapporti con il padre mafioso, Luigi, uomo di Tano Badalamenti, che fu ucciso nel settembre del 1977, un anno prima dell'omicidio di Peppino.
Una rottura del vincolo mafioso che si accompagna alla denuncia politica attraverso manifestazioni, ma anche dalle frequenze di radio Aut. La radio libera dalla quale il collettivo denunciava abusivismo edilizio, strapotere mafioso e la costruzione della terza pista dell'aeroporto di Punta Raisi trasformato in smercio di stupefacenti da raffinare sulla costa, utilizzato per i viaggi tra Stati Uniti e Sicilia degli uomini della mafia.
Il pastrocchio dello stato
La condanna in primo grado di Tano Badalamenti sancisce la sua responsabilità, il boss muore nel 2004 negli Stati Uniti dove era stato arrestato e condannato nell’inchiesta Pizza connection. Già nel 1977, Peppino Impastato lo indicava come «viso pallido, esperto di lupara e traffico di droga».
A distanza di anni, il figlio Leonardo è tornato in Italia dal Brasile. Rivuole indietro l’intero patrimonio sottratto al padre, ma la domanda viene rigettata perché «i beni formalmente intestati ai familiari di Gaetano Badalamenti erano sicuramente riconducibili a questi, che era il capo mafia di Cinisi e che utilizzava le due società fittiziamente intestate al figlio per fare affari nel periodo della guerra di mafia», scrivono i giudici della corte della Cassazione nel marzo 2021.
Quella richiesta di revoca era già stata avviata da altri familiari e bocciata anche in assenza di una sentenza definitiva di condanna per Gaetano Badalamenti morto prima che la sentenza divenisse definitiva, quindi prosciolto per morte del reo. Su un punto l’erede vince presentando una nuova richiesta più ristretta: il casolare non si doveva sequestrare e così viene annullata la confisca. Lo stabilisce la corte d’Assise di Palermo, nel luglio 2020.
Inizialmente quel casolare non era stato oggetto del sequestro contro Badalamenti, ma nel 2014 la corte d’Assise di Palermo inserisce, in ragione di una istanza presentata dall’Agenzia nazionale dei beni confiscati e di una relazione tecnica del comune di Cinisi, quel fabbricato rurale tra i beni confiscati.
Ma la correzione è sbagliata perché quell’immobile è frutto, scrivono i giudici nella sentenza del luglio 2020, di una donazione e non era confiscabile e così torna nella disponibilità degli eredi del boss. Un pastrocchio di stato. Oggi i terreni restano confiscati, ma il fabbricato rurale no.
Il rampollo, poco dopo la decisione assunta nel 2020, prova a forzare la serratura per tornare in possesso dell’immobile, la vicenda ha avuto una coda di denunce ai carabinieri tra Badalamenti e il sindaco di Cinisi Gianni Palazzolo. Pochi giorni dopo Leonardo Badalamenti, difeso dall’avvocato Baldassarre Lauria, viene arrestato per effetto di un procedimento di estradizione della giustizia brasiliana che lo ha condannato a cinque anni per traffico di stupefacenti.
Badalamenti presenta ricorso contro la custodia cautelare in carcere che viene respinto dalla corte di Cassazione che conferma il pericolo di fuga. «Tale pericolo è stato desunto soprattutto dalla circostanza che l'estradando risulta registrato all'Interpol brasiliano con tre diversi nominativi e in quel paese è stato anche condannato per uso di documenti falsi, circostanze oggettive», si legge nel dispositivo della Suprema Corte. Oggi è libero dopo la revoca della richiesta di estradizione.
Il comune di Cinisi, dopo il tentativo di accesso all’immobile di Badalamenti, coinvolge Casa Memoria che prende in gestione il bene, visto che il progetto precedente con un raggruppamento di comuni non era ancora decollato. Ma il comune perché assegna il bene quando sapeva della revoca? «Badalamenti, che risponde di calunnia per quello che dice, mi cercava in comune, ma non ha mai prodotto la sentenza, noi la comunicazione ufficiale l’abbiamo ricevuta successivamente», risponde il sindaco.
E adesso come si risolve? «Procediamo sul piano penale con la richiesta di applicazione dell’articolo 46 del testo unico antimafia che prevede il pagamento dell’equivalente valore di mercato del bene, ma anche opponendoci, in sede civile, alla restituzione del bene. Io sono uomo dello stato e nel caso dovessimo perdere restituirò le chiavi anche se c’è ipoteca da due milioni su quel casolare a carico di un congiunto», dice il sindaco.
In nome del padre
Ma perché Leonardo Badalamenti non accetta il valore dell’equivalente cedendo l’immobile? «Quella casa vale almeno 200 mila euro più le spese legali più l’indennità di occupazione, non mi interessa niente che l’abbiano ristrutturata. L’hanno data agli Impastato per creare una contrapposizione, io non ho nulla contro gli Impastato, ma quella del comune è stata una montatura», dice Badalamenti. Parla di forma, di legge e delle sentenze che si devono rispettare, ma anche di altro.
Gaetano Badalamenti mandante dell’omicidio Impastato? «Mi rifiuto di crederlo». E chi era il mandante, a Cinisi comandava lui, era lui il mafioso? «Bisogna capire se è stato un delitto di mafia, si parla anche di altre cose, ho visto discorsi di Gladio». Discorsi riferiti a possibili convergenti interessi nell’assassinio di Peppino Impastato che paga le denunce contro la mafia e, ipotesi mai riscontrate, gli approfondimenti su omicidi irrisolti in terra siciliana. Ma è Tano Badalamenti a ordinarne l’omicidio, lo ha stabilito la corte d’Assise di Palermo.
Il rampollo riscrive la storia. «Io rispondo delle mie azioni, non di quelle di mio padre, dei suoi errori, dei suoi reati. Mio padre criminale? È un’opinione sua. Voglio pensarlo come era a casa, non alzava la voce e non faceva male a nessuno». Ma almeno è stato un boss di mafia? «Così dicono tutti, non saprei».
In America era stato condannato, lo sa? «Lasciamo perdere la sentenza in America che se inizio a parlare non ne usciamo più». Meglio di no. Leonardo Badalamenti annuncia che ha presentato istanza di revisione anche della sua condanna in Brasile perché è stato un complotto di tre poliziotti che gli hanno estorto soldi.
L’unica cosa vera in questa storia è che lo stato rischia di restituire le chiavi a Leonardo Badalamenti, figlio di don Tano, «viso pallido, esperto di lupara e traffico di droga» o, nella migliore delle ipotesi, rischia di pagargli il fabbricato rurale.
© Riproduzione riservata