Correva l’anno 1991, il 18 febbraio. Trent’anni sono passati da quando l’eccellentissimo giudice della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale aveva scarcerato con un cavillo quarantatré dei super boss portato a processo da Giovanni Falcone. Ecco le loro storie
- Palermo, carcere dell’Ucciardone, 18 febbraio del 1991, l’eccellentissimo giudice della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale ha appena scarcerato con un cavillo quarantatré imputati condannati al maxi processo contro Cosa nostra.
- È giornata di festa per la mafia siciliana. Quello che qualcuno aveva promesso, qualcun altro lo sta mantenendo: uscirete presto, uscirete tutti.
- Ma il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e quello della Giustizia Claudio Martelli con un decreto legge stampato in fretta e furia ordinano un nuovo arresto per i quarantatré boss appena scarcerati.
Il portone di ferro di via Enrico Albanese numero 3 si spalanca e il primo che esce è un ragazzo smilzo, nervoso, molto pallido, visibilmente stordito dall’aria della libertà. «Chiddu è Anatredda», quello è Anatrella, sussurra una donna inzuppata di pioggia che trova riparo sotto gli alberi. Anatrella, Salvatore Rotolo, sicario, cinque uomini uccisi con le sue mani nella “camera della morte”, la stalla a un passo del porticciolo di Sant’Erasmo dove torturavano e facevano “cantare” i traditori. Non c’è nessuno che aspetta Anatrella.
Un minuto dopo esce il secondo. Cappotto elegante, i capelli neri impomatati, baffetti, trascina una costosa valigia di pelle nera. È Pietro Senapa, uno che i cadaveri li squagliava nell’acido o li buttava in mare con un blocco di cemento ai piedi. I parenti lo circondano.
C’è la madre, ci sono le sorelle, i cugini, i fratelli, i cognati. Riemerge dai baci e dagli abbracci, vede che ho una penna e un taccuino e “Pieruccio” mi dice: «Scrivilo: Carnevale è buono e giusto come Papa Giovanni».
Palermo, carcere dell’Ucciardone, 18 febbraio del 1991, l’eccellentissimo giudice della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale ha appena scarcerato con un cavillo quarantatré imputati condannati al maxi processo contro Cosa nostra.
È giornata di festa per la mafia siciliana. Quello che qualcuno aveva promesso, qualcun altro lo sta mantenendo: uscirete presto, uscirete tutti.
Dopo Anatrella e Pieruccio Senapa, esce Pietro Alfano detto ù zappuni per gli incisivi a forma di zappa, dopo Alfano esce Stefano Fidanzati dell’Arenella, dopo Fidanzati esce Giovanbattista Pullarà di Santa Maria del Gesù, poi uno dei Prestifilippo dei Ciaculli, Vincenzo Buffa, Mariano Agate di Mazara del Vallo, poi un altro dei Marchese.
Dopo tre giorni uscirà anche Michele Greco, “il papa della mafia” e il capo della Cupola.
Ritorno al passato
È un pomeriggio freddo di trent’anni fa. Il cielo grigio, Palermo che ha sperato ripiomba nel suo passato. Il “maxi” si è concluso con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere, il secondo grado ha ridotto le pene e stravolto l’impianto del giudice Falcone negando l’“unitarietà” di Cosa Nostra, sono solo “bande scollegate una dall’altra”. Il processo viaggia verso la Suprema corte ma intanto “Papa Giovanni” grazia i boss.
Sono ore di confusione, non si sa chi può uscire e chi deve stare dentro. La seconda sezione della Corte di assise di appello, presieduta da Salvatore Scaduti, ordina la liberazione di altri ventotto mafiosi «se non detenuti per altra causa». Fra loro ci sono anche Pippo Calò, il vecchio Francesco Madonia, Masino Spadaro, Giuseppe Lucchese.
Sono quelli che hanno fatto di Palermo una città di lapidi e di croci. I giudici sembrano impotenti, la Cassazione è Cassazione, la legge è legge.
La decisione di Corrado Carnevale fa venire i capogiri, per lui la Cupola è soltanto una favola. E, per “l’altissima corte”, sono scaduti i termini di custodia cautelare per quei quarantatré del maxi processo. Quindi, tutti fuori. È un’interpretazione forzata e un po’ maramalda. Non tiene conto dell’articolo 297 comma 4 del nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989: esclude, con chiarezza, che i giorni di udienza vengano computati nel calcolo dei termini di custodia cautelare.
Ma Carnevale non se ne cura, lui nutre un profondo disprezzo per quei giudici di Palermo, detesta Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Firma. E i mafiosi tornano liberi.
È uno dei magistrati più famosi d’Italia, odiatissimo da alcuni suoi colleghi e amatissimo dai principi del foro. È anche lui siciliano, di Licata, provincia di Agrigento. Dal 1985 è presidente di sezione della Suprema corte, «il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione». I giornalisti gli danno un soprannome: «L’ammazzasentenze».
È vanitoso, non si sottrae alle interviste. Dice: «La Costituzione vuole il magistrato in toga e non in divisa». Dice: «C’è chi si è messo in testa di fare l’angelo vendicatore dei grandi mali che affliggono la società». Dice ancora: «Io mi rifiuto di essere un combattente contro la mafia. Il mio compito non è quello di lottare...alcuni magistrati dovrebbero sparire dalla circolazione...».
Quante sentenze ha ammazzato presidente?, gli chiedono un giorno. Sono quasi 500. Ha invalidato i provvedimenti di don Stilo in Calabria, del camorrista Giuseppe Misso per la strage del rapido 904 Napoli-Milano e di Giuseppe Greco, il figlio del “papa”. Ha annullato il processo per l’Italicus, 12 morti e 48 feriti. Ha assolto Licio Gelli dall’accusa di sovversione e Salvatore Greco per l’omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. E una sera del febbraio del 1991, con un colpo di penna, rimette in strada gli uomini più pericolosi della Sicilia.
A Palermo c’è paura. Si diffonde la notizia che da un momento all’altro potrebbe lasciare l’Ucciardone anche Michele Greco, il capo della Commissione che ha l’aspetto di un parroco di campagna ma è un pupo manovrato dai Corleonesi. Prima dell’arresto, nella sua tenuta della Favarella aveva fra i suoi ospiti abituali anche il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, sua Eccellenza Giovanni Pizzillo (il presidente della Corte di appello di Palermo, il magistrato più alto in grado nell’isola), sua eminenza il cardinale Ernesto Ruffini. E conti e baroni e marchesi.
Tutti l’attendiamo in via Enrico Albanese numero 3, all’ingresso dell’Ucciardone. Ora esce, ora esce. Passa un giorno, passano due giorni. Niente, don Michele è ancora in cella. Alla procura generale fanno e rifanno i conti sulle sue condanne, non ne ha nemmeno una definitiva. Forse solo quella per la falsificazione della patente che gli hanno trovato in tasca il giorno della cattura, in un casolare sopra la montagna di Caccamo. Finalmente il portone di ferro si apre. Ecco, fra un attimo spunterà la faccia da prete del “papa”. Ma l’uomo che sorride alla libertà è Nicola Milano detto Ninu ù Ricciu, uno dei capi della famiglia di Porta Nuova. E Michele Greco? La Corte di assise firma l’ordine di scarcerazione, il foglio transita a mezzogiorno in cancelleria dove però c’è una fotocopiatrice rotta, il tecnico l’aggiusta dopo le 13, gli impiegati del tribunale non se la sentono di fare gli straordinari per liberarlo. Il “papa”, che non abbandona mai il suo Vangelo e due breviari, rimane all’Ucciardone a pregare. Tutto rimandato alla mattina dopo quando, finalmente, è pronto per tornare nella sua dimora di campagna. Davanti al carcere c’è trambusto, cronisti, carabinieri, poliziotti e, con fare sospetto, tre o quattro uomini che vengono fermati e perquisiti dagli agenti dell’“investigativa” della squadra mobile. Sono incensurati. Si scoprirà che sono dei “servizi”.
Se non avesse visto “Il Padrino”
A Villa Whitaker, sede della prefettura di Palermo, il prefetto convoca il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, è invitato anche l’Alto commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica. A Roma ci sono riunioni febbrili fra il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e quello della Giustizia Claudio Martelli, tutti e due in gran segreto di sera entrano a palazzo Chigi per ordinare, con un decreto legge stampato in fretta e furia sulla Gazzetta Ufficiale, un nuovo arresto per i quarantatré boss appena scarcerati. Con il decreto si stabilisce, una volta per tutte, che i tempi processuali saranno “congelati” automaticamente e indipendentemente dalle richieste dei pm o dai provvedimenti dei giudici.
È il solo mezzo per riportare i boss all’Ucciardone. Dopo tre giorni, uno dopo l’altro tornano nel carcere borbonico di Palermo. Gli avvocati insorgono, sbraitano, protestano contro quello che diventa per tutti “il mandato di cattura del governo”. Un po’ come è accaduto l’anno scorso con il ministro Bonafede che, sempre con decreto, ha rispedito in galera i detenuti usciti dopo la circolare dell’amministrazione penitenziaria per il rischio Covid.
In quei pochi giorni di libertà quarantadue boss si sono goduti la famiglia in silenzio. Uno solo si è concesso alle telecamere. Proprio lui, il “papa”. Con un’arancia in mano, passeggiando lentamente nella sua tenuta della Favarella, si è raccontato al grande pubblico. Cominciando così: «Mi volete dire in che cosa io avrei mafiato? Mi chiamano il papa ma non posso paragonarmi ai papi per intelligenza, cultura e dottrina. Ma per la mia coscienza serena, e per la profondità della mia fede, posso anche sentirmi pari a loro, se non superiore a loro...».
Continuando così: «La rovina dell’umanità sono certi film, film di violenza, film di pornografia. Per esempio, se il pentito Totuccio Contorno avesse visto Mosè e non Il Padrino, non avrebbe calunniato nessuno e io non sarei qui. Invece purtroppo Totuccio Contorno ha visto Il Padrino...». E finendo così: «La calunnia si è fatta viva con i primi uomini apparsi sulla terra. Ed è sempre stata apportatrice di atroci conseguenze. A me mi hanno rovinato le lettere anonime. Un anonimato cieco e cattivo...Sappiate che la violenza non fa parte della mia dignità».
Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione (ma Carnevale non è più alla prima sezione penale per volere del ministro Martelli) lo condannerà all'ergastolo e il “papa” non vedrà mai più la sua Favarella.
© Riproduzione riservata