«Il passaggio in Italia serviva soltanto ad abbassare il prezzo tramite il lavaggio dell'iva». Nella mastodontica frode fiscale internazionale scovata dalla Procura europea e che giovedì 14 novembre ha portato all'arresto, disposto dal tribunale di Milano, di 47 persone e al sequestro di beni per oltre mezzo miliardo di euro, il nostro paese aveva le forme di una grande lavatrice.

A finire nell'oblò erano soprattutto apparecchi informatici e software di note marche venduti in Italia a società che, come in un effetto domino, simulavano acquisti e rivendite con l'unico obiettivo di frodare lo stato tramite il mancato versamento dell'iva e la contestuale creazione di crediti che le società del sistema avrebbero utilizzato nei confronti dell'Erario. Di fatto, però, la merce il più delle volte, in Italia, neanche arrivava fisicamente. La destinazione finale, infatti, sarebbe stata altrove.

«In generale il prodotto non veniva venduto in Italia, dove le capacità di assorbimento sono pressoché inesistenti. La merce la vendevo sul mercato spagnolo. Anche in Spagna c'era un lavaggio dell'iva, ma poi i prodotti venivano venduti sottocosto». A spiegarlo ai magistrati, nel 2023, è Paolo Falavigna, 47enne milanese ritenuto al vertice di una delle cinque associazioni a delinquere intercettate dalla guardia di finanza e dalla polizia.

Falavigna si trova già in carcere per vicende simili. Anzi è anche sulla scorta delle sue parole – ritenute parziali e volte a «rendere dichiarazioni sufficienti per giungere a una rapida conclusione patteggiata del processo a suo carico, con relativa scarcerazione, al fine di poter riprendere nuovamente il business», ha scritto il gip Mattia Fiorentini – che gli inquirenti sono andati avanti riuscendo a ricostruire una rete di rapporti che avrebbero avuto nodi fondamentali in giro per l'Europa e non solo.

Nell'indagine sono finite un centinaio di società italiane e una ventina con sedi legali in Slovacchia, Svizzera, Gran Bretagna, Olanda, Polonia, Lussemburgo, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Bulgaria. Ma i contatti portati avanti dagli indagati, e l'immenso giro di affari illeciti, avrebbe toccato anche Singapore e Dubai.

La federazione

«Sodalizio criminale multilivello costituito dalla federazione delle organizzazioni criminali», lo hanno definito gli inquirenti parlando dei gruppi che avevano il proprio centro di interessi a Roma, Milano, Napoli. A farne parte sarebbero stati non solo manager, imprenditori e una serie di prestanomi disposto a intestarsi le società cartiere chiamate a simulare l'importazione delle merci, dando vita alle frodi carosello e poi sparire senza dare un soldo all'Erario, ma anche le cosche.

Nel mirino della procura europea sono finiti infatti i rapporti con soggetti ritenuti legati a cosa nostra e alla camorra. Nel primo caso le attenzioni si sono poste su Antonio Lo Manto, vicino a uno dei killer e degli uomini di fiducia dei fratelli Graviano, e su Pietro Conoscenti, non indagato ma considerato contiguo ai clan catanesi Santapaola-Ercolano e Cappello. Nel secondo, invece, il coinvolgimento riguarda gruppi come i Di Lauro e i Nuvoletta.

La criminalità organizzata avrebbe avuto sia il ruolo di appianamento dei conflitti tra i vari attori in gioco, con tanto di disponibilità a mettere in campo le armi se il caso lo avesse richiesto, ma anche il ruolo di investitrice di ingenti somme di denaro di provenienza illecita.

Tra le zone in cui i capitali illeciti sarebbero stati riciclati in maniera più intensa ci sarebbe stata Cefalù, nota località turistica marinara in provincia di Palermo e al confine con la provincia di Messina. Qui gli inquirenti hanno scoperto una serie di acquisizioni «di immobili di pregio attraverso società di diritto italiano ma partecipate al cento per cento da società con sede legale in territorio estero».

Nella cittadina che si affaccia sul Tirreno, il tribunale ha disposto i sigilli su beni il cui valore è stato quantificato in oltre dieci milioni di euro. È il caso, per esempio della Tenuta Spinola, di proprietà della Trident srl, società posseduta dalla Trident Invest Pte Ltd con sede a Singapore o della Baia degli Ulivi, di proprietà di Sunsea srl, avente sede in provincia di Genova, ma dietro cui c'è l'elvetica Sunsea Real Estate Sa, a sua volta di proprietà della Pinvestement Pte Limited di Singapore. In entrambi i casi, schermati da prestanome, i fili del discorso sarebbero stati tenuti da Falavigna e dal 42enne Rodolfphe Ballaera, di nazionalità belga ma residente a Milano.

I registi del sistema

Per i magistrati i due sono tra i principali attori di un sistema che in quattro anni avrebbe prodotto fatture per operazioni inesistenti per un importo superiore a 1,3 miliardi.

«Le frodi carosello si realizzano sfruttando il regime di non imponibilità ai fini iva previsto per le operazioni commerciali intracomunitarie, interponendo in un'operazione commerciale tra diversi paesi – si legge nella richiesta di misura cautelare – un soggetto economico fittizio, cosiddetta cartiera, che acquista la merce dal fornitore comunitario senza iva per poi rivenderla a cessionari nazionali con l'applicazione dell'Iva ordinaria italiana. In questa fase si realizza la condotta fraudolenta, in quanto la società (cartiera) invece di vendere la merce maggiorata del proprio utile e pagare l'imposta sulla cessione, la vende a sottocosto senza versare l'iva all'Erario esposta sulla fattura emessa. Questo strumento fraudolento consente di immettere sul mercato nazionale beni a prezzi molto concorrenziali».

Una formula che le procure italiane ormai conoscono bene, ma che continua a essere difficile da bloccare sul nascere, consentendo così alle organizzazioni criminali – mafie comprese – di portare avanti business milionari.

© Riproduzione riservata