Nel nome del padre. Ma in cerca di una identità. Perché anche i figli delle stelle vogliono illuminarsi la vita. Stasera tocca a Daniel Maldini, 22 anni, figlio d’arte, nipote d’arte, convocato nell’Italia che sfida il Belgio per portare avanti una dynasty in azzurro. Trentotto anni fa toccò al suo papà, Paolo. Era stato Cesare, il nonno di Daniel, all’epoca ct dell’Under 21, a convocarlo per una partita contro l’Olanda.

«Dagli altri giocatori pretendo che mi diano del lei, cosa che mio figlio non può fare. In Italia c’è la tendenza a parlare sempre di raccomandazioni. Ci sono padri illustri chirurghi che hanno figli incapaci di cucire un bottone. Voglio dire: Paolo è arrivato qui per meriti suoi».

Per Daniel ha garantito Luciano Spalletti, che lo ha convocato un po’ a sorpresa per questo doppio impegno dell’Italia. Da fuori, quella dei Maldini ci è sempre apparsa come una grande storia italiana. Sapore di casa, buoni sentimenti, generazioni che crescono all’ombra della tradizione. Senza mai tenere in considerazione il peso del confronto che padre e figlio si erano dovuti portare dentro. Anni più tardi, già uomo ed ex giocatore, Paolo ha confessato il fardello che tutti i figli si portano dietro. O almeno il suo.

«Nella mia vita sono stato abituato a storie incredibili: mio papà allenatore dell'Under 21 e io nell'Under 21, mio papà allenatore dell'Italia al Mondiale e io capitano, mio papà allenatore del Milan e io capitano. Dico la verità: è piacevole? No». Tutti gli chiedevano di Daniel, che doveva diventare un campione del Milan come era stato lui, e di questa generazione del fútbol da portare avanti, che continuava di padre in figlio, e ancora di padre in figlio.

Paolo, che è sempre stato capace di sincerità insormontabili, una volta ha risposto che «avere il papà tra le scatole non è piacevole e so che per mio figlio è così».

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Fotografie e dualismi

Non c’è mai stata una vera ossessione nei Maldini, le cose sono arrivate da sé, una dopo l’altra. Di generazione in generazione. Father and son, così è la vita per alcuni. «Quello che magari mio papà mi ha dato, e quello che spero di aver dato a mio figlio – ha detto un’altra volta Paolo – era comunque un'idea di vita, una sorta di linea che tu dai con l'educazione che insegni ai tuoi figli».

Daniel deve averla accettata e compresa. Ne ha fatto tesoro e scudo. Anche lungo i corridoi e nelle stanze di Coverciano mentre sbirciava le gigantografie del padre e del nonno appese qua e là. Ciò che non distrugge fortifica. E adesso lui sembra davvero pronto a questo esordio in Nations League. «Fa un bell’effetto vedere le foto del nonno e di papà al centro tecnico, ma sono concentrato sul ritiro e vivo giornata dopo giornata».

Non è di questo rapporto ancestrale, che unisce i padri ai figli, che genera conflitti e grandi storie, che ci parla lo sport. Ma quando si insinua, quando entra nelle pieghe di una competizione, non fa che alimentare l’angoscia, il confronto, il dualismo. Non sempre, ma spesso i figli di atleti famosi hanno cercato di emulare i loro padri nell'arena.

Per alcuni è stata una lotta peggiore, non deve essere facile far fronte ai paragoni infiniti senza riuscire a uscire dalle lunghe ombre proiettate dall’alto. Per altri, invece, è stato un modo per superare chi li ha preceduti, dimostrandosi migliori, persino più grandi.

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Una sofferenza doppia

Con il suo gusto del paradosso, Adriano Panatta – che era figlio del custode del circolo Parioli, e in fondo aveva cominciato a giocare proprio grazie a papà – un giorno azzardò che i campioni dovrebbero essere orfani.

Ma la storia dello sport è costellata di confronti. Non solo a casa nostra. Arjun Tendulkar ha fatto notizia per aver emulato suo padre, Sachin Tendulkar, considerato da molti il più grande battitore nella storia del cricket. «Essere figlio di un giocatore di cricket non è così facile e quando mi sono ritirato il mio messaggio ai media è stato di permettere ad Arjun di innamorarsi del cricket, di dargli quella opportunità».

Ai Mondiali in Qatar del 2022, l'attaccante francese Marcus Thuram entrò in campo nella finale contro l'Argentina. Suo padre Lilian aveva contribuito a far vincere alla Francia la Coppa del Mondo nel 1998. È stata la prima volta che un padre e figlio hanno giocato l’ultimo atto del mondiale. «Prima mi conoscevano come il figlio di Lilian Thuram, oggi sono soprattutto Marcus Thuram. Senza nulla togliere a mio padre che ha 142 presenze in nazionale che nessuno gli porterà via».

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Tiger Woods, considerato uno dei migliori golfisti di sempre, ha giocato insieme a suo figlio Charlie al Pnc Championship. Relazioni amorose, relazioni pericolose. Come quelle tra i padri che allenano i figli (o le figlie) e poi si lasciano. È successo a Tamberi. Quando ha vinto l’oro olimpico, nel 2021, suo padre era in tribuna per lui, a dividere la sofferenza, o forse a raddoppiarla: allenatore e genitore.

Alla vigilia del Mondiale 2022, il figlio campione lo licenziò con un comunicato, che sanciva che non erano mai andati davvero d’accordo. Ma l’anno successivo, quando vinse il Mondiale di Budapest, dedicò quel trionfo tanto voluto proprio a suo padre Marco. «Non ci parliamo da un po' di tempo ma questa medaglia è anche sua, lo devo a lui se salto».

Ci sono casi anche più drammatici: quello di Gjert Ingebritsen, per esempio, che è stato accusato di abusi fisici e mentali dai tre figli atleti-allievi.

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L’ossessione di LeBron James

Bisogna scavare nel tempo e nel mito per capire che cos’è davvero il rapporto padre-figlio. Leggere l’Iliade, l’Odissea, affidarsi alla letteratura, ai romanzi, all’arte. E comprendere la fierezza, la lontananza, l’assenza. E ovviamente l’emulazione, quella che i figli cercano sempre nel loro primo eroe.

Ma può bastare anche l’orgoglio di un padre come LeBron James, il campione dei campioni della pallacanestro, che durante la partita di preseason dei Los Angeles Lakers contro i Phoenix Suns, ha potuto correre sullo stesso parquet assieme al figlio Bronny. Aveva occhi di smeraldo, LeBron.

«Wow, è stato surreale», ha scritto su X dopo la partita. «Siamo usciti da un timeout e ci siamo messi uno accanto all'altro. L'ho guardato. Era come essere in Matrix o qualcosa del genere. Semplicemente non sembrava reale. Ma è stato fantastico avere quei momenti».

Non è tanto perché i due sono diventati la prima coppia padre-figlio a giocare insieme in una squadra Nba, è il senso dietro quei minuti a rendere tutto speciale. LeBron aveva fatto di tutto per poterci arrivare, 4 minuti e 9 secondi che sono valsi il senso di un’unione, di una storia. Alla fine del match James padre ha chiuso con 19 punti e 5 rimbalzi in poco più di 16 minuti di presenza in campo, mentre James figlio è rimasto a secco (0 punti) in 13 minuti complessivi di gioco.

E va beh, è il resto che conta. Alla domanda su cosa voglia dire condividere questo momento nel giorno del compleanno di suo figlio, LeBron ha detto che «significa tutto». E ancora: «Per qualcuno che non ha avuto un padre, poter avere quell'influenza sui tuoi figli è davvero incredibile. E poi, alla fine, poter lavorare con tuo figlio, penso che sia una delle cose più grandi che un padre possa sperare o desiderare». 

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