- Inchiesta sui braccianti indiani sfruttati nell’agro pontino. È cominciato qualche giorno fa il processo a Latina nei confronti degli imprenditori agricoli, Fabrizio e Daniele Tombolillo, padre e figlio, accusati di aver picchiato con calci e pugni e buttato in un canale un loro dipendente per aver chiesto una mascherina.
- Quando nel maggio 2020 i Tombolillo, padre e figlio, imprenditori agricoli accusati di un brutale pestaggio ai danni di un bracciante, si vedono revocare le misure cautelari, trovano un difensore d’eccezione, il parlamentare europeo di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini.
- Gli investigatori ricostruiscono le modalità operative dell’azienda. «Appurata la pervicace volontà degli indagati volta ad accrescere i propri profitti reclutando in condizioni di sfruttamento stranieri approfittando del loro stato di bisogno».
Quando nel maggio 2020 i Tombolillo, padre e figlio, imprenditori agricoli accusati di un brutale pestaggio ai danni di un bracciante, si vedono revocare le misure cautelari, trovano un difensore d’eccezione, il parlamentare europeo di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini. «Di questo caso hanno parlato telegiornali, tv, commentatori, politicanti, i “professionisti” dell’agromafia, come li chiamerebbe Sciascia. C’è stato persino un ministro che ha giustificato la sanatoria di centinaia di migliaia di immigrati irregolari, citando proprio questo caso su Terracina. Rivelatosi dunque, al momento, falso», dice Procaccini. A distanza di un anno i due sono stati rinviati a giudizio per aver picchiato con calci e pugni e buttato in un canale un loro dipendente che aveva chiesto una mascherina.
Il migrante aggredito
A Terracina, in provincia di Latina, migliaia di migranti di nazionalità indiana ogni giorno raccolgono prodotti agricoli e, nonostante sanatorie e leggi sul caporalato, lavorano in condizioni di sfruttamento. Il fenomeno non riguarda chiaramente tutte le aziende, ma la cronaca recente ci restituisce un altro episodio inquietante che conferma questa sistematica violazione dei diritti. Nei giorni scorsi un medico è stato arrestato perché prescriveva ai braccianti farmaci per alleviare la fatica e sopportare il dolore del lavoro. Doping per resistere allo sfruttamento. È successo a Sabaudia, che confina con Terracina, ritrovo per vacanzieri e per la buona borghesia romana ai piedi del monte Circeo. Mare incantevole e una terra munifica, da anni affidata alle braccia, sottopagate, di lavoratori stranieri. Nel marzo dello scorso anno, uno di loro, Singh Balraj, viene aggredito con «calci, pugni, bastonate e, inoltre, gettato in un canale di scolo sulla pubblica via, costretto ad allontanarsi dall’azienda Orticola Tombolillo srl e rinunciare alle proprie spettanze lavorative, stipendio e trattamento di fine rapporto».
Questo si legge nella richiesta di rinvio a giudizio firmata dal pubblico ministero di Latina, Claudio De Lazzaro, disposta nei giorni scorsi dal gip del locale tribunale, Pier Paolo Bortone, nei confronti degli imprenditori agricoli, Fabrizio e Daniele Tombolillo, padre e figlio. Entrambi sono accusati di aver provocato al lavoratore «lesioni personali consistite in una frattura scomposta dell’ulna sinistra e trauma cranico senza perdita di coscienza». Con l’ulteriore aggravante di avere agito con una finalità di discriminazione.
E con le gravi accuse di estorsione, lesioni personali e rapina, per entrambi è iniziato al tribunale di Latina il processo, nel silenzio generale. Infatti «nessun giornalista era presente», ha riferito il sociologo dell’Eurispes, Marco Omizzolo che ha accompagnato Singh Balraj all’udienza preliminare in cui l’uomo si è costituito parte civile, rappresentato dagli avvocati Silvia Calderoni e Arturo Salerni. Il giudizio, iniziato a fine aprile, entrerà nel vivo il prossimo 19 ottobre.
I braccianti e la bustina
Nel frattempo, però, pesano come macigni, nei confronti degli imprenditori, i racconti forniti dai testimoni e depositati agli atti del processo che Domani ha letto. «Conosciamo Singh Balraj e abbiamo saputo che è stato licenziato e violentemente picchiato da Fabrizio e Daniele perché non faceva quello che gli veniva ordinato. Anche per questo motivo noi abbiamo sempre accettato e rispettato le condizioni che ci venivano imposte. Non volevamo rischiare di perdere il lavoro ed essere picchiati».
È il 3 luglio dello scorso anno e mentre il mare di Terracina è preso d’assalto dai bagnanti, quattro braccianti di nazionalità indiana trovano il coraggio e raccontano alla locale stazione di polizia questa storia di violenza e sfruttamento.
«Lavoravamo tra le 9 e le 10 ore al giorno, tutti i giorni, anche la domenica e i festivi. Ci davano 5 euro l’ora, ma Fabrizio ci diceva di dire alla polizia che ne prendevamo 6,75». E ancora, «quando non stavamo bene prendevamo una bustina e andavamo a lavorare, perché se stavamo due giorni senza andare, oltre a non essere pagati, sapevamo che Fabrizio ci avrebbe licenziati». Non solo. I quattro braccianti indiani hanno riferito ai poliziotti di Terracina: «Fabrizio non ci ha mai dato i guanti, stivali e nessun altro dispositivo di protezione. Il giorno del controllo, dopo il vostro arrivo, ha dato a tutti le mascherine».
Testimonianze di sfruttamento, queste, che fanno il paio con quello che aveva riferito Singh Balraj ai carabinieri di Terracina che per primi lo avevano trovato riverso per strada, in lacrime, con il braccio fratturato, una ferita lacero contusa sulla fronte e gli indumenti in parte bagnati.
Era il pomeriggio del 22 marzo del 2020. «Ero andato dal signor Tombolillo per chiedergli se potevo avere quanto in mio diritto come fine lavoro», ha raccontato il bracciante ai militari, «ma padre e figlio mi hanno aggredito a calci e pugni e mi hanno colpito con un bastone». La vittima, inoltre, ha denunciato l’assenza di dispositivi di protezione, di servizi igienici, ma anche di aver lavorato tutti i giorni, comprese le domeniche. A leggere i racconti dei testimoni, il referto del pronto soccorso e le informative della polizia di Terracina che hanno dato nuovo impulso alle indagini da cui poi si è originato il processo, se ne hanno le prime conferme.
Un modello sistematico
È il 3 aprile del 2020, qualche giorno dopo l’aggressione quando i poliziotti si presentano in azienda e ricostruiscono quanto ritrovano nell’informativa depositata agli atti. «Si rileva che tutti i dipendenti stranieri, uomini e donne, erano sprovvisti di dotazioni tese a preservarsi l’un l’altro e al contempo di preservare i prodotti agricoli in materia di contagio da Covid-19». E poi, «quando il personale di polizia ha contestato tale mancanza, il Tombolillo ha provveduto a distribuire le mascherine agli operai di cui pertanto disponeva ma non ne aveva dotato il personale».
Gli investigatori ricostruiscono le modalità operative dell’azienda. «Appurata la pervicace volontà degli indagati volta ad accrescere i propri profitti reclutando in condizioni di sfruttamento stranieri approfittando del loro stato di bisogno». Nella perquisizione gli agenti ritrovano anche il bastone che sarebbe stato utilizzato per «cagionare le gravi ferite inferte». Nell’informativa vengono riportate le testimonianze dei lavoratori: «I braccianti agricoli escussi hanno dichiarato di espletare i propri bisogni fisiologici sul luogo di lavoro, privati dell’utilizzo dei servizi igienici». Non solo. I poliziotti hanno riferito anche un altro particolare, che rende questa storia di violenza e sfruttamento ancora più drammatica ed esemplificativa di un modello di lavoro. «La pericolosità degli stessi stanti anche i precedenti occorsi in quell’azienda dove come comunicato anni addietro un bracciante agricolo trovò la morte proprio per la mancanza delle prescritte dotazioni e condizioni di sicurezza».
La difesa dell’impresa
Gli investigatori raccolgono anche la versione dell’imprenditore, entrambi si dicono estranei alle accuse. Tombolillo riferisce che «si era presentato all’interno dell’azienda un giovane extracomunitario di origini indiane che era stato da poco licenziato, sotto effetto di stupefacenti e con atteggiamento minaccioso avrebbe preteso la somma di 50 euro per fine lavoro. E lui e il figlio lo avrebbero fatto andare via». Nel maggio 2020 il giudice conferma la misura dei domiciliari per Fabrizio Tombolillo e l’obbligo di firma per il figlio Daniele. Misure che vengono revocate, poco dopo, per «l’incertezza in ordine all’attuale sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza». A distanza di un anno è arrivato il rinvio a giudizio e il processo stabilirà la verità su quel giorno.
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