L’84enne Franco Chimenti è alla ribalta della Ryder Cup di golf. Tredici presidenti di federazione hanno più di 70 anni, età in cui non si può più fare il sovrintendente dell’Opera, sei sono over 75. Sotto i 60 anni sono solo 14. Nessuno ne ha meno di 50. Età media: 64,7. Quella dei parlamentari in questa legislatura è di 51, quella dei sindaci di 54,9. Come funziona la perpetuazione del potere
Se pensate che il golf sia uno sport da maturi pensionati, la Ryder Cup vi ha chiarito le idee: no, non lo è, è roba da atleti e pure da giovani, come dimostrano anche i numeri dei suoi praticanti. Se pensate invece che quel distinto signore che rivendica in tv e sui giornali il miracoloso successo di aver portato in Italia il più intrigante e suggestivo tra i trofei golfistici fosse un po’ il nonno di quello sport, beh, avete proprio ragione: Franco Chimenti ha 84 anni e del golf italiano è il capo dal 2002. Chimenti è anzi il nonno di tutto il Coni: tra i presidenti delle federazioni sportive nazionali lui è il più stagionato, persona gentile e a modo, un vero signore. E probabilmente, anzi diciamo pure certamente, bravo: quel miracolo della Ryder Cup è soprattutto merito suo, della sua esperienza, delle sue relazioni internazionali, del suo saper navigare nei mari vasti dello sport mondiale, insomma, perfino dei suoi 84 anni.
È questo l’argomento che i grisagliati signori del Coni mettono in campo ogni qualvolta ci si accorge o riaccorge che c’è qualcosa di strano dentro quel palazzo così pieno di luce e di spazio, qualcosa che ne restringe il campo e la bellezza, qualcosa che stona di brutto ed emana odori meno piacevoli delle acque di colonia di ottima marca che riempiono il Salone d’Onore (si chiama così) del Foro Italico durante le rare sedute del Consiglio Nazionale, che riunisce tutti i capi degli sport. L’argomento dei grisagliati è questo: siamo bravi, competenti, riconosciuti e omaggiati nel mondo. Poi sì, certo, invecchiamo, come tutti: ma è una buona ragione per insultarci e definirci casta? È una buona ragione per scandalizzarsi se per sei anni abbiamo lottato con tutte le nostre forze per far saltare una legge dello Stato che ci impediva di ricandidarci a vita? È o non è sacrosanto che adesso noi tutti si festeggi il fatto che quella legge è finalmente morta, abrogata, sepolta e che nessuno potrà più romperci le scatole con questa storia dell’età?
I fatti, per chi se li fosse persi nella calura estiva, sono questi: il 16 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il testo di conversione in legge del decreto in cui i nostri amici presidenti erano riusciti a far inserire un codicillo che abolisce il limite di tre mandati ai presidenti delle federazioni, voluto e approvato dal governo Conte I nel 2019. Niente più limiti per i federali, che d’altra parte guidano organizzazioni definite “ibride”, giuridicamente di natura privata e però finanziate da Sport e Salute, che invece è un'azienda pubblica, come un ente pubblico è il Coni. Quindi il prossimo anno, dopo le Olimpiadi di Parigi, quando si apriranno le tornate elettorali delle singole federazioni, si potranno serenamente far rieleggere presidenti in carica dal 1992 (Gianni Petrucci, basket, con interruzione dovuta al più alto incarico di presidente del Coni), dal 1993 (Sabatino Aracu, sport rotellistici, e Luciano Rossi, tiro a volo), dal 1997 (Vincenzo Iaconianni, motonautica) o dai primissimi anni del nuovo millennio (Angelo Binaghi, tennis, Mario Scarzella, arco, Paolo Barelli, nuoto, per citarne alcuni). Vedrete che quando saremo sotto elezioni sportive il tema tornerà di moda e in molti si riaccorgeranno di questa faccenda dell’immutabilità della classe dirigente che gestisce un pezzo mica tanto ininfluente del Paese, quelli che questo giornale descriveva felicemente come i veri Gattopardi. Quindi ora vale la pena soffermarci piuttosto su qualcosa che, forse sempre causa calura estiva, non è stato tanto ben messo a fuoco sugli effetti collaterali che questa leggina “tana libera tutti” provocherà nei prossimi anni: la conservazione di un’anomalia che non ha paragoni in Italia. Un’anomalia riassumibile così: lo sport è l’unico settore del tutto impermeabile alle esigenze di rinnovamento e parità di genere che il Paese in altri settori ha sia pur faticosamente recepito e codificato negli ultimi decenni. Bastano pochi dati, che valgono più di ogni parola. Vediamoli.
La politica si rinnova di più
Cominciamo dal rinnovamento (e non andiamo in ordine di importanza). L’età media dei presidenti delle federazioni sportive italiane è ad oggi 64.7 anni. Sessantaquattrovirgolasette. Di media. Perché dopo nonno Chimenti, unico ultraottantenne, ci sono 13 over 70, l’età in cui come è ormai noto non puoi più fare il sovrintendente dell’Opera; di questi, sei hanno più di 75 anni. Quelli che hanno meno di 60 anni sono solo 14. Quelli che ne hanno meno di 50, sono invece zero. Nessun quarantenne, non hanno l’età. Nella demografia della dirigenza sportiva, trentenni e ventenni equivalgono invece a bimbi da asilo nido. Dice: è la democrazia, bellezza, si fanno eleggere.
Perché stupirsi se l’Italia è un Paese per vecchi? E poi i presidenti federali sono spesso pensionati perché bisogna avere tempo libero e passione, i soldi non ci sono e dunque non costituiscono una motivazione. Sarà. Però poi facciamo il piccolo sforzo di paragonare questi dati ad altri figli della democrazia, gli eletti della politica. L’età media dei parlamentari italiani, in questa legislatura, è di 51 anni (e siamo pure in crescita rispetto al parlamento precedente). Alla Camera ci sono 65 trentenni (su 400). La media del Senato è 56 anni. Improprio e troppo alto il paragone? Allora scendiamo un po’: i sindaci. La media anagrafica di quelli italiani è 54,9 anni, che è pur sempre vent’anni meno degli sportivi. Ci sono 38 primi cittadini (su 7740) che hanno meno di 40 anni, 630 meno di 40, 1938 meno di 50, 2403 meno di 60. I settantenni sono 776, il 10% del totale.
Se anche questi dati non vi sembrano sufficienti per bollare il Coni come un gerontocomio, pazienza. Hanno vinto loro, che d’altra parte hanno vinto davvero con la famosa legge tana libera tutti. Che ha imposto, come misura compensativa, un’asticella di due terzi dei voti per essere rieletti dopo il terzo mandato. Come dire: solo chi dimostra di essere un vero monarca assoluto può esserlo a vita. Qui bisognerebbe aprire il capitolo su come funzionano le elezioni nelle federazioni, che sembrano concepite da un algoritmo di Intelligenza Artificiale istruito per la conservazione del posto conquistato.
In Spagna, che ha un problema simile al nostro, è di questi giorni il dibattito su come riformare il sistema baronale che consente ai presidenti sportivi di non rischiare mai la poltrona, come dimostrato dalla resistenza estrema di Luis Rubiales, gran capo del calcio, odiato da tutto il Paese dopo il bacio in bocca non richiesto alla giocatrice della nazionale Jenni Hermoso. Da noi invece si fanno i codicilli per tornare indietro e salvare i baroni. Così si perpetua il potere. Un potere, peraltro, tutto tenacemente, indissolubilmente, ferocemente e clamorosamente maschile, per passare alla seconda e imbarazzante anomalia dello sport italiano. Alla guida delle federazioni, comprese quelle affiliate e non olimpiche, ci sono due donne: Laura Lunetta, danza sportiva, e Antonella Granata, squash. Due su 48. Il 4 e qualcosa per cento, contro il 33% delle parlamentari (che ha pure fatto molto discutere, per difetto) o per restare in casa contro il 44 per cento di atlete che rappresentano l’Italia alle Olimpiadi. Ripetiamo: quarantaquattro per cento in campo, 4 per cento al comando. Ah, particolare curioso: Lunetta e Granata sono tra le pochissime “giovani”, se così si possono definire (e sì che si possono) due cinquantenni.
Il bello è che Giovanni Malagò, presidente in carica del Coni, 64 anni, tre mandati, al momento non rieleggibile perché l’ente pubblico non rientra nella nuova legge (ma scommettete anche su questo: si troverà un modo) le donne le ama davvero. Ne ha scelte due come vicepresidenti, carica ahinoi molto onorifica e molto poco esecutiva, e non fa altro che esaltare sia i risultati sportivi in esplosiva crescita sia l'aumento della presenza femminile nei vari consigli federali. «Sono un femminista» ha detto qualche tempo fa in un’intervista, sciorinando numeri di praticanti, medaglie e atlete qualificate ai Giochi. Poi, alla prossima seduta del Consiglio Nazionale, tornerà a immergersi nell'effluvio di dopobarba. Aspettando che qualcuno, dall’alto dei cieli o dei palazzi, pensi e dica e faccia qualcosa per rinfrescare il vecchio, intoccabile e molto maschio sport italiano.
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