I supermercati, l’eolico, il turismo, il calcestruzzo, le opere d’arte, ma anche la ristorazione e l’intrattenimento. La rete dei fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro è lunga così come i segmenti economici nei quali la primula rossa della mafia stragista aveva messo le mani. Soldi a fiumi per sostenere la sua vita agiata, le notti da nababbo, le giornate di lusso, la latitanza dorata.

Messina Denaro è stato il numero uno anche negli affari. Grazie a una rete di complici, insospettabili e colletti bianchi. Un cerchio magico ancora in parte misterioso. «C’è una rete di professionisti e imprenditori monitorati, di altissimo spessore, che ha servito e contribuito al potere criminale ed economico di Messina Denaro. Attualmente sono ancora incensurati o sono usciti indenni dalle inchieste che li hanno visti coinvolti», dice un investigatore.

Il patrimonio del boss, secondo alcune stime investigative, potrebbe aggirarsi intorno ai 4 miliardi di euro, ma si tratta del tesoro scoperto, si ritiene che altrettanto sia nascosto da prestanome rimasti senza nome, senza volto, senza responsabilità. Messina Denaro si è rassegnato al proprio destino, indebolito nel fisico dal tumore e da schermi di protezione sempre più fragili. Dopo l’arresto è stato portato nel carcere dell’Aquila dove alla prima visita è risultato allenato e in buono stato di salute, anche se il carcinoma lo costringe a chemioterapie e gli lascia pochi anni di vita.

La sua carriera criminale è stata accompagnata da imprenditori, politici, professionisti, che si sono mossi per favorirne la latitanza, aumentarne il patrimonio e garantirgli impunità. Messina Denaro il solitario, l’ultimo stragista, che si era messo in testa di pensare al suo orizzonte più che a quello di Cosa nostra. Se n’è era accorto anche il suo padre criminale, Totò Riina. «A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare ma non si interessa di noi. Questo fa i pali della luce, ci farebbe più figura se se la mettesse in c... la luce», diceva Riina parlando di uno dei business di Messina Denaro: l’energia eolica.

Via col vento

Vito Nicastri è stato ribattezzato dai giornali internazionali “il signore del vento”, il padrone dei parchi eolici siciliani, un’ascesa economica che secondo gli inquirenti dell’antimafia ha avuto come sponsor Messina Denaro. Così l’imprenditore è stato destinatario di un sequestro record di beni e quote societarie pari a un miliardo e trecento milioni di euro. Nicastri è stato arrestato, nel 2018, per concorso esterno in associazione mafiosa.

È stato il pentito Lorenzo Cimarosa, imparentato con Messina Denaro, ad aver indicato l’imprenditore come finanziatore del boss. L’ex elettricista, diventato re dell’eolico, è stato prima condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, poi assolto in secondo grado e ora è nuovamente a processo dopo il pronunciamento della Corte di Cassazione che ha annullato la sentenza di assoluzione rimandando gli atti per un nuovo dibattimento.

I suoi rapporti vanno dalla politica, che finanziava e corrompeva anche in passato, ai funzionari regionali utili per oliare pratiche e velocizzare la costruzione del suo impero.

I carrelli della spesa

Ma la rete di Messina Denaro gestiva business in più settori. Dalle rinnovabili si arriva così alla grande distribuzione. Già nel 2006, in alcuni pizzini (i foglietti di carta con cui comunicano i mafiosi ndr) riconducibili all’ex latitante, emergeva il coinvolgimento di una grossa catena di supermercati tra le attività d’interesse del boss. Una catena di proprietà di Giuseppe Grigoli, re del settore, che è stato arrestato nel 2007 e condannato per i suoi rapporti con la mafia a dodici anni di carcere. Il suo patrimonio valeva quasi un miliardo di euro con supermercati a marchio Despar (estranea all’indagine). Alcuni sono stati confiscati in via definitiva e sono rimasti chiusi dopo il sequestro. Davano lavoro a 400 dipendenti.

Grigoli è stato ritenuto responsabile di aver messo a disposizione della mafia trapanese e del boss latitante la propria struttura imprenditoriale «in tal modo consentendo al Messina Denaro la realizzazione di interessi economici e l’espansione del suo potere di controllo in un importante settore di mercato, e consentendo a sé stesso, nell’esercizio di attività imprenditoriale, indebiti vantaggi, grazie a interventi operati dal Messina Denaro, attraverso la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo», si legge negli atti dei processi.

Arte e sospetti

Giuseppe Grigoli ha cominciato a parlare con i magistrati raccontando la sua verità e facendo altri nomi. Tra questi quello di un famoso trafficante di opere d’arte, Gianfranco Becchina, appassionato di olio (lo ha venduto anche alla Casa Bianca). «Io non c’entro niente con queste storie, la mia disgrazia inizia con un vicino che si era risentito per l’acquisto di un terreno, mi hanno voluto sequestrare le opere in Svizzera mettendo in mezzo questa storia della mafia», dice Becchina.

Secondo la procura di Roma le opere erano al centro di un maxi traffico internazionale nel quale il mercante era coinvolto, tutto è finito con la prescrizione. «Ma non è vero niente, c’erano seimila reperti, io ho fatto il mio lavoro rispettando le leggi», dice. Ma quanto valeva quel patrimonio? «Nel mondo dell’arte il valore degli oggetti lo stabilisce il compratore, comunque valevano milioni di euro».

Grigoli aveva raccontato di buste di soldi, consegnategli da Becchina, che avrebbe girato a Vincenzo Panicola, cognato del boss catturato lunedì e che sarebbero servite a finanziare la sua latitanza. Accuse sempre respinte al mittente e che non sono approdate in sentenze giudiziarie. Vicende ricostruite nel provvedimento di sequestro datato 2017 e in quello di confisca emesso dal tribunale di Trapani lo scorso anno e oggetto di un ricorso giudiziario.

«Conto di risolvere tutto, io non c’entro niente con Messina Denaro, ora finisce questa diffamazione di questo territorio dopo il suo arresto, ora le cose andranno meglio probabilmente, finirà la caccia alle streghe. Io quel Grigoli non lo conosco, e non so chi sia neppure il tizio cui avrei dato i soldi. Se fossi stato legato a questo o quello sarei un uomo libero?», si difende Becchina.

I collaboratori di giustizia hanno raccontato la passione della mafia per le opere d’arte. Messina Denaro voleva perfino rubare la statua bronzea del Satiro danzante. Senza dimenticare le sue responsabilità e le condanne per le bombe del 1993 che hanno colpito il patrimonio artistico del nostro paese a Roma, Firenze e Milano.

Valtur

Nei settori cari al capomafia anche quello turistico. Nel 2018 a Carmelo Patti, il patron del noto marchio Valtur, sono stati sequestrati un miliardo e mezzo di euro in beni e proprietà. Patti, però, era morto nel 2016, ma l’antimafia ha comunque disposto il congelamento delle società per la contiguità alla mafia di Messina Denaro. I suoi legali hanno sempre respinto ogni addebito.

Resta una domanda: ma quanto è rimasto di segreto e mai confiscato a Matteo Messina Denaro? «Mia nonna mi disse che quando un mafioso ti chiede un piacere ti inguai se dici di no, ma anche se dice di sì», dice Giuseppe Cimarosa, imparentato con i Messina Denaro, che ha scelto coraggiosamente di rinnegare una parte della sua famiglia e perfino il padre Lorenzo, che poi si è pentito.

Lorenzo Cimarosa, morto nel 2017 era cugino del boss. È stato un imprenditore del calcestruzzo che ha messo la sua attività e i suoi guadagni nelle mani di Matteo Messina Denaro. Uno dei tanti che ha detto i suoi sì piegandosi al potere dello stragista.

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