Come al solito la notizia è stata trattata solo come notizia e tutto è finito lì. Una battuta temeraria, qualche titolo gridato, le repliche di circostanza. Ma le cose non accadono mai per caso e le parole hanno sempre un peso.

Sarebbe quindi un errore considerare solo una gaffe l’intervento di una docente palermitana di giurisprudenza che, davanti a una folta platea di studenti, ha definito «un obbrobrio» il maxi processo istruito da Giovanni Falcone a metà degli anni 80. Sarebbe un errore perché non è stata semplicemente una sortita inopportuna, uno scivolone.

È una licenza che oggi ci si può tranquillamente concedere, è qualcosa che è in perfetta armonia con lo spirito del tempo. Finalmente siamo arrivati dove era impensabile arrivare: demolire il maxi processo.
I fatti sono stati riportati con dovizia di particolari ma – ripeto, come al solito – fuori dal contesto nel quale sono maturati. Che è poi la Palermo del 2023, molto somigliante alla Palermo del 1984 o del 1987 o del 1988 dove l’allora preside di giurisprudenza Giovanni Tranchina attaccava (e dopo decenni di cupo silenzio, dopo i dibattimenti con imputati mafiosi che finivano inesorabilmente assolti per insufficienza di prove) quel capolavoro di ingegneria giudiziaria costruito da Falcone «perché i processi mastodontici non danno mai alcuna grande garanzia nell'accertamento della verità».

E non per niente, qualche giorno fa, la professoressa Daniela Chinnici ha citato proprio l’illustre preside Tranchina mentre si lasciava andare ad altre riflessioni. Come questa: «Il processo non deva fare vendetta». O come quest’altra: «I maxi processi sono congegni eversivi del sistema». Dopo le proteste che si sono levate, la professoressa Chinnici si è in qualche modo scusata ma fino a un certo punto, perché sul suo profilo Facebook ha in sostanza confermato il pensiero: «Non è chiaro a molti ciò che giuridicamente sono le fondamenta del processo penale democratico». 
Simbolo del riscatto di Palermo, confine fra un passato di apatia o peggio di complicità e un nuovo e rivoluzionario metodo di affrontare giudiziariamente il potere delle mafie, il maxi processo è stato per la prima volta pubblicamente “processato”. Chi l’avrebbe mai potuto immaginare appena qualche anno fa? Chi, in Sicilia o altrove in Italia, avrebbe mai predetto che in un’aula di giurisprudenza un docente potesse sferrare un colpo così deciso alla creatura di Giovanni Falcone?

Le motivazioni

È accaduto perché ormai ci sono tutte le condizioni favorevoli per farlo. Ribaltare la storia, cancellare la memoria, correggere, rettificare, aggiustare. Un revisionismo che passa dalla vulgata che le stragi del 1992 le abbiano volute solo e soltanto i mafiosi della cupola, fino alle cronachette sul viagra ritrovato in una delle tane di Matteo Messina Denaro. In mezzo, scene come Maria Falcone che prima denuncia il sostegno offerto dai condannati per reati di mafia Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro al candidato sindaco Roberto La Galla e poi con il neo sindaco Roberto Lagalla si fa fotografare sorridente «per discutere iniziative da portare avanti insieme».

Ormai si può dire tutto e il contrario di tutto, è un teatrino. C’è l’indignazione a intermittenza e a convenienza, l’antimafia di cartapesta, si diffonde l’idea che l’emergenza mafiosa sia finita perché non si spara più sulle strade. Sono tutti a dare addosso alle carcasse dei Corleonesi.

Magistratura, reparti investigativi, giornalismo, personaggi politici. Il governatore della Sicilia Renato Schifani, che pur qualche frequentazione in certi ambienti l’ha avuta, in queste ultime settimane è sempre stato fra i primi a dichiarare qualcosa sulla cattura di Matteo Messina Denaro, su sua sorella Rosalia, sui favoreggiatori di Campobello di Mazara: «Vince la Sicilia», «stato forte», «tutti devono sapere che in questa terra non ci possono essere spazi né di illegalità né d’impunità». Sono i fantastici scioglilingua di uno che è a processo con l’accusa di avere spiato i segreti di una procura.

L’aria che tira ben predispone a esibizioni come quella di una prof sul maxi processo «obbrobrio», magnifica lezione contemporanea sul contrasto alle mafie nelle aule di giustizia. Continuando così, prima o poi torneremo a mettere la parola “presunto” non solo e giustamente davanti agli imputati di reati associativi ancora non condannati per via definitiva, torneremo a scrivere “la presunta mafia di Palermo”, la “presunta mafia di Agrigento”, la “presunta mafia di Trapani”.

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