Dal primo giorno di carcere Maysoon Majidi non riesce a capire perché è partita dall’Iran da profuga e si ritrova in Italia da imputata. L’attivista curdo-iraniana di 28 anni, in fuga da una repressione sanguinaria, è accusata di aver aiutato il capitano della barca che dalla Turchia ha raggiunto le coste calabresi il 31 dicembre 2023. Per gli inquirenti avrebbe aiutato chi guidava il veliero mantenendo l’ordine sull’imbarcazione.

Com’è «possibile che una donna iraniana, giovane ed esile come me, abbia potuto mantenere l’ordine su una barca in cui c’erano uomini grandi e grossi che con uno schiaffo potevano gettarmi in mare»?, scrive Majidi nella memoria in cui ricostruisce nel dettaglio il suo viaggio e risponde alle accuse mosse dalla procura.

«Questa è la mia voce!», afferma l’attivista, determinata a provare la sua innocenza e a rivelare che è tutto frutto di «un equivoco», come ha spiegato a Laura Boldrini, deputata del Partito democratico e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo, che ieri è andata in visita al carcere di Reggio Calabria.

«L’equivoco nelle traduzioni, fatte in modo approssimativo», spiega Boldrini, «gli accusatori poi rintracciati anche da “Le Iene” hanno detto di non averla mai accusata». «È possibile», chiede la deputata, «che tutti riescano a parlare con i due accusatori e invece il tribunale non riesca ad acquisire queste testimonianze?».

Majidi si trova in carcere per le dichiarazioni di due persone su 77, sentite poco dopo lo sbarco e mai più raggiunte. L’accusa è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. All’udienza del 18 settembre è emerso che è stata la Guardia di finanza a sentire i due testimoni perché la polizia era impegnata nella gestione dell’ordine pubblico del Capodanno Rai a Crotone.

Rischia dieci anni o più di carcere, eppure l’accusa ha rinunciato a sentire altri testimoni: «Perché c’era il Capodanno e non si è potuto procedere ad altri interrogatori di migranti per avere riscontro alle accuse contro di lei», evidenzia Il Crotonese nel racconto dell’udienza.

«La mia voce»

Gli elementi che non tornano nell’impianto accusatorio sono stati messi nero su bianco dalla stessa Majidi, che ricorda la sua storia: una laurea in teatro e una «magistrale in scienze sociali», «attivista politica» e «dei diritti delle donne», «membro dell’organizzazione dei diritti umani Hana». Scappata dall’Iran, si è inizialmente rifugiata in Iraq con il fratello, ma anche qui, per l’attivismo, hanno «ricevuto messaggi di minacce da parte del regime iraniano» e, spiega, «abbiamo dovuto lasciare» il paese «perché l’Onu ha negato ogni appoggio, aiuto o protezione».

Con altri attivisti ha pagato 5mila euro per entrare in Turchia, racconta, e arrivati a Istanbul sono stati truffati da un uomo che ha «rubato i soldi che avevamo pagato per venire in Italia», 16mila dollari. È la famiglia ad aver aiutato i fratelli a raccogliere altro denaro per il viaggio: in tutto «quasi 50mila dollari», spiega nella memoria, «la mia famiglia ha dovuto vendere la macchina e la casa per recuperare questi soldi». Spese che non vengono sostenute da chi è veramente parte di un’organizzazione criminale.

Secondo la procura, prova del coinvolgimento sarebbe stato il possesso del telefono. La ragazza precisa però nella memoria: «Abbiamo lasciato i cellulari» prima di iniziare il viaggio e sono stati riconsegnati alla fine, quando «si vedeva la spiaggia d’Italia».

Durante la traversata di 4 giorni è stata sottocoperta, ma è poi uscita in superficie perché aveva la nausea. Avvistate le coste calabresi e riavuto il telefono, «anche io», spiega, «ho mandato un messaggio e i selfie con mio fratello alla famiglia». Il messaggio vocale lo ha dovuto ripetere più volte, perché il freddo, scrive, «mi faceva tremare la lingua».

Il pm sostiene poi che la ragazza avrebbe tentato la fuga con il fratello e altre tre persone. «Non c’era nessuna intenzione di fuggire», scrive la ragazza, «l’unica preoccupazione era non dare le mie impronte digitali in Italia per ottenere asilo politico in Germania». E, prosegue, «pensavo fosse andato tutto bene, ho cominciato a fare foto ai funghi cresciuti per terra, agli alberi».

Invece di raggiungere la Germania con il fratello, Majidi è stata portata al carcere di Castrovillari, prima, e poi a Reggio Calabria. Durante la perquisizione «hanno visto il mio corpo in gravi condizioni», racconta, «e i miei vestiti macchiati di sangue. Tuttavia, ridevano di me mentre mi sedevo».

Mancate traduzioni degli atti, assenza di garanzie processuali, notti insonni per una compagna di cella, scioperi della fame, attacchi di panico e psicofarmaci. Questo è il racconto del carcere in Italia, un paese che avrebbe dovuto accoglierla, offrirle asilo. «Ha ribadito che è venuta in Italia per chiedere protezione», spiega Boldrini dopo la visita, «non poteva più vivere in sicurezza né nel suo paese né nel Kurdistan iracheno dove si era rifugiata con il fratello».

Invece, da 9 mesi si trova detenuta nelle carceri calabresi, con l’ennesimo rigetto della richiesta di arresti domiciliari ma, in compenso, con moltissime lettere di solidarietà inviate dalle persone che le sono vicine. Uno scheletro, «pesa 38 chili ed è irriconoscibile» ma, conclude Boldrini, «questa volta ho visto in lei la determinazione ad affermare la sua verità, a dire che non è qui per cercare lavoro ma perché perseguitata».

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