Le trasformazioni della società italiana negli anni Cinquanta si rispecchia nella nascita delle merendine e nell’evoluzione del concetto di colazione, che con l’abbandono progressivo del lavoro nei campi si fa anche al bar
Togliamoci subito un pensiero: la merenda è un’invenzione recente. L’idea di un piccolo spuntino a metà pomeriggio o a metà mattina, che interrompa il digiuno e che dia nuove energie per arrivare ai pasti principali è estremamente moderna. Fino agli anni Sessanta, l’intervallo a scuola serviva per recarsi in bagno e per riposarsi un po’, o magari per ripassare in fretta e furia in vista del compito o dell’interrogazione dell’ora successiva.
A nessuno veniva in mente di portarsi qualcosa da mangiare a scuola. Eppure, la parola “merenda” è nata proprio in ambito scolastico, dal verbo latino merere, vale a dire “meritare”; quindi, la merenda storicamente si configurava come un piccolo premio, che poteva anche consistere in un frutto o in una pagnotta fresca, da dare agli studenti per incentivarne l’impegno. È altamente probabile che questa usanza sia nata all’interno degli istituti educativi gestiti da ordini religiosi.
Studenti e contadini
Fuori dall’ambito scolastico, la merenda era invece diffusa nel mondo agricolo, ma di fatto andava a sostituire uno dei due pasti principali, il pranzo o la cena.
La famosa merenda sinoira, che recentemente è tornata di moda in Piemonte come attrazione turistica, era in effetti molto praticata dai contadini, ma il nome stesso, che deriva da “sina” (cioè cena), ci dice che era solo un modo per sfruttare fino all’ultimo le ore di luce nel periodo in cui i lavori nei campi erano più intensi.
Negli anni Cinquanta le cose cominciano a cambiare: la merenda a scuola inizia a diffondersi, come al solito partendo dai figli delle classi più agiate. Ma c’è un altro cambiamento, ancora più radicale, che in qualche modo è certificato proprio dal successo commerciale del Buondì Motta, inventato nel 1953.
Fino a quando l’Italia era un paese agricolo, non solo non esisteva la merenda, come detto, ma anche la colazione di fatto era sconosciuta per gran parte della popolazione: i contadini si alzano molto presto e solo dopo alcune ore di lavoro si mettono a mangiare qualcosa, a quel punto, però, non è una colazione, ma qualcosa che assomiglia di più a un pranzo, spesso consumato direttamente nei campi.
Gli orari di un operaio e di un impiegato sono completamente diversi ed è proprio con la veloce trasformazione dell’Italia da paese agricolo a paese industriale che la colazione diventa il primo dei tre pasti principali.
Questo cambiamento è certificato anche dalla trasformazione dei bar. Fino agli anni Cinquanta, il bar era l’evoluzione della vecchia e tradizionale osteria; un locale che veniva frequentato quasi esclusivamente a partire dal tardo pomeriggio e in particolare alla sera, in ogni caso quando era terminato il lavoro, indipendentemente dal tipo di lavoro che i vari clienti svolgevano. La colazione al bar era una stravaganza che praticavano in pochi e, per i motivi già detti, solo nelle città.
Si trattava comunque di un tipo di consumo che riguardava solo i lavoratori del terziario, per operai e artigiani la colazione era una faccenda domestica a base di caffè, latte e pane del giorno prima.
Tra parentesi, questa intensa correlazione tra il settore economico e la colazione fuori casa spiega anche perché proprio a Roma si trovi una forte concentrazione di bar specializzati nella preparazione delle colazioni con la conseguente fioritura di cornetti, maritozzi, brioche e anche di cappuccini, dei quali ovviamente si raccontano per tutti le origini antichissime.
In realtà è stata l’ipertrofica burocrazia capitolina a generare questa domanda, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra.
La Girella
Esattamente vent’anni dopo il Buondì, un altro prodotto della Motta, la Girella, provocò un ulteriore salto di qualità nel settore. Proprio come era già accaduto con il Buondì, il successo della nuova merendina creò le premesse per l’ingresso di nuovi marchi e il lancio di nuovi prodotti sempre più elaborati.
Tale espansione riguardò anche l’export, dove i dolci da forno italiani in pratica non avevano concorrenti. Grazie anche alla solida reputazione del panettone, i monodose lievitati e quelli a base di pan di Spagna conobbero un crescente successo in Europa e non solo; questo tipo di dolce rimane ancora oggi saldamente legato al gusto italiano, a ben guardare, si tratta dell’ennesimo caso di Made in Italy di totale derivazione industriale.
Il superamento della logica fordista e questa tendenza verso la diversificazione, che ovviamente non riguardava solo le merendine, ma tutti i prodotti industriali a partire dagli anni Settanta fu alla base dell’ingresso nel settore di molti altri player, come Parmalat, Pavesi, Bauli e Balconi (quest’ultimo fortemente orientato al mercato estero).
Ma in particolare, quello che sarebbe diventato leader del settore: il gruppo Barilla, attraverso il marchio Mulino Bianco. L’azienda di Parma portò la diversificazione a livelli incredibili, arrivando a proporre sugli scaffali dei supermercati contemporaneamente quaranta tipi diversi di brioche, plum cake, cornetti, tortine, eccetera.
Si può tranquillamente affermare che un settore anomalo e per certi versi sorprendente come quello delle merendine rappresenti alla perfezione l’evoluzione dell’industria alimentare italiana negli ultimi settant’anni, la sua eccezionalità nel contesto internazionale, ma anche la sua capacità di intercettare con prodotti nuovi i cambiamenti in atto nella società e nei gusti dei consumatori.
Molte volte anche anticipando trasformazioni che non si erano ancora manifestate del tutto e soprattutto indicando la strada anche a molte imprese artigianali, che oggi traggono vantaggio proprio dalla reputazione costruita dall’industria.
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