Li chiamano rimpatri volontari. Nei fatti si tratta di vere e proprie espulsioni verso gli stessi paesi da cui le persone migranti hanno deciso di partire. Il ministero degli Esteri (Maeci) a giugno 2024 ha autorizzato un finanziamento – attraverso il Fondo Migrazioni – di sette milioni di euro al progetto “Multi-sectoral support for vulnerable migrants in Lybia” dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Di questi, quasi un milione di euro verrà destinato ai rimpatri cosiddetti volontari umanitari, dalla Libia al paese d’origine, di 820 migranti vulnerabili.

Contro questo finanziamento ha presentato ricorso al Tar del Lazio, il 18 novembre, un gruppo di organizzazioni della società civile, impegnate nella difesa dei diritti delle persone in movimento e nel contrasto alla violenza di genere. Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari ritengono che «dietro a questa cifra, stanziata per una presunta giustificazione umanitaria, si nascondano espulsioni mascherate che violano il principio di non refoulement, gli obblighi di protezione dei minori e delle persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere».

Al centro una questione: per una persona che si trova in un istituto di detenzione in Libia si può parlare di consenso libero e informato? Sono numerosi i rapporti internazionali che denunciano i rischi di condizioni inumane e degradanti. La missione di inchiesta indipendente dell’Onu sulla Libia ha rilevato «ragioni fondate per credere che i migranti in tutta la Libia siano vittime di crimini contro l’umanità e che atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani vengano commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria». Violazioni che sono ritenute imputabili alle autorità libiche e ai gruppi armati.

Così, l’Ufficio dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani (Ohchr) ha riconosciuto che molti migranti, soprattutto se detenuti, non sono in grado di prendere una decisione che possa essere definita volontaria ma, vedendosi negati percorsi di migrazione sicuri e regolari, sono di fatto costretti ad accettare il rimpatrio assistito per sfuggire a condizioni di detenzione arbitraria, tortura, violenze sessuali e altre violazioni dei diritti umani. Per l’Ohchr non c’è consenso libero, preventivo e informato e le persone rischiano di tornare a situazioni insostenibili. Sono elementi che minano la volontarietà di questi rimpatri e che violano il principio di non-refoulement, secondo cui un richiedente asilo non può essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la vita o libertà sarebbero minacciate.

Per questo le sette organizzazioni italiane hanno chiesto al Tar di sospendere, in via cautelare, l’intesa tra il Maeci e l’Oim della durata di due anni (1 luglio 2024-30 giugno 2026). E chiedono, in via principale, di annullare il decreto e tutti gli atti connessi, perché questo finanziamento deve essere considerato illegittimo. L’udienza cautelare è prevista il prossimo 8 gennaio.

Nessuna trasparenza

Per finanziare il programma (Vhr) il Maeci usa i fondi destinati alla cooperazione: invece di sostenere lo sviluppo dei paesi e tutelare le popolazioni più vulnerabili, si promuovono politiche di esternalizzazione delle frontiere. Nel 2022, lo stesso Ohchr ha invitato gli stati «a non finanziare questi programmi in assenza di idonee garanzie sul rispetto del diritto di non respingimento», scrivono le organizzazioni. «Una prassi sempre più spregiudicata – spiega Giulia Vicini, avvocata di Asgi e socia di Le Carbet – di utilizzo di accordi e fondi nei paesi terzi di transito, finalizzata al contenimento dei cosiddetti flussi migratori fuori dall’Europa».

I Vhr sono una parte sempre più significativa delle azioni dell’Oim nel paese, che forniscono anche un supporto tecnico alla cosiddetta Guardia costiera libica, le cui azioni sono state denunciate da diversi organismi.

L’Italia, dal 2017, ha destinato oltre 25 milioni di euro all’intero programma. E, in base a un accesso agli atti, emerge come un gran numero di persone rimpatriate fossero detenute: il 43 per cento nel 2023, scrive l’Oim, e circa il 76,5 per cento dal 2017 al 2021. C’è un problema di trasparenza, denunciano le organizzazioni: una condivisione limitata e spesso disomogenea delle informazioni non consente di capire la portata delle misure. In alcuni casi il Maeci ha secretato i paesi d’origine, non ha diffuso i dati disaggregati in base al genere, all’età e alla nazionalità. Solo in alcuni rapporti ha specificato il numero di persone detenute, mentre non ha mai fatto sapere i nomi dei centri di detenzione libici.

Dai pochi dati disponibili emerge, però, il rimpatrio di donne, minori, persone sottoposte a tratta e con vulnerabilità mediche, provenienti, tra gli altri, da Nigeria, Mali, Bangladesh. Sotto una veste umanitaria, si nasconde quindi un tassello fondamentale delle politiche di esternalizzazione delle frontiere, un processo «estremamente pericoloso», segnala Vicini, «in assenza di alternative quali l’integrazione locale (impossibile in questi paesi anche in virtù della totale assenza di dispositivi di protezione) e di reinsediamento». Aprendo quindi, concludono le organizzazioni, «canali di mobilità forzata verso i paesi di origine, fornendo al contempo una legittimazione umanitaria alla cooperazione con la Libia».

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