Per comprendere un fenomeno si parte dai dati. Quello delle molestie sessuali sul lavoro è un fenomeno sistemico, che investe ogni ambito e la vita delle persone che le subiscono, in larga maggioranza donne. Ma i dati non bastano a raccontarlo perché è un fenomeno sommerso che fatica a emergere e resta all’interno di quegli spazi. Se ne parla molto poco, si denuncia ancora meno. Perché le molestie sul lavoro sono una questione di potere, sopraffazione, e sono, anche, una questione di spazi.

«È dalla polis, nell’antica Grecia, che lo spazio urbano è costruito sul modello maschile perché lo spazio pubblico è considerato dell’uomo mentre lo spazio domestico appartiene alla donna», spiega Giada Bonu Rosenkranz, assegnista di ricerca alla Scuola Normale Superiore. «Nelle città chi si sente a proprio agio è un maschio cisgender - che si riconosce nel genere corrispondente a quello biologico - cittadino, eterosessuale, abile, benestante».

E questo perché ad esempio una donna o una persona non binaria in quello spazio, in particolare in alcuni momenti del giorno o della notte, si muove come se fosse ospite. Così lo spazio di lavoro, il luogo in cui la maggior parte delle persone trascorre l’intera giornata, è un luogo non per tutte e tutti.

«Le donne nel mercato del lavoro non hanno mai avuto piena cittadinanza», spiega Barbara Leda Kenny, esperta di politiche di genere della Fondazione Brodolini. Secondo Kenny questo ha a che fare con due ordini di problemi: l’accesso e le condizioni. «Il mercato del lavoro italiano è composto prevalentemente da piccole e medie imprese di stampo familiare e soprattutto patriarcale, in cui le donne hanno più difficoltà a entrare. I dati poi dicono che il problema è restare nel mondo del lavoro e questo ha a che fare anche con la qualità. È un mercato che con l’entrata in massa delle donne non si è adattato alle nuove esigenze. Mentre le donne uscivano di casa per lavorare, gli uomini non sono subentrati nel lavoro di cura casalingo».

Tutto questo avviene in un contesto culturale ancora caratterizzato da stereotipi di genere, in cui molestie sessuali e comportamenti inappropriati sono ridotti a battuta, scherzo, rendendo quello spazio escludente.

I dati

In Italia, secondo i dati Istat pubblicati nel 2018 e relativi al biennio 2015-2016 un milione e 404 mila donne ha subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro nel corso della propria vita. Un numero che equivale all’8,9 per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione. Tra il 2013 e il 2016 hanno subito questi episodi oltre 425mila donne, il 2,7 per cento.

Secondo il rapporto annuale Istat del 2023 «tra il 2004 e il 2022 il numero di donne occupate è aumentato di quasi un milione»: l’incidenza delle donne sugli occupati è quindi salita dal 39,4 al 42,2 per cento, di fronte a una media europea del 46,3.

I dati sono la base per l’emersione di qualunque fenomeno: «Avere dati è una scelta politica», ricorda Kenny «ma anche analizzarli, perché non sono mai neutri». Solo il 2,2 per cento delle donne e lo 0,7 per cento degli uomini, secondo un’indagine dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, riferiscono di essere venuti a conoscenza di episodi di molestie sul lavoro. Una percentuale molto bassa che, per l’Ufficio dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) per l’Italia, «risente, molto probabilmente, del fatto che tali fatti spesso non vengono rivelati perché le vittime, per svariate ragioni, non da ultima la paura di perdere il posto di lavoro, evitano di parlarne».

«La violenza in generale e la molestia in particolare sono sempre la manifestazione di rapporti e sistemi di potere, e nei luoghi di lavoro sono molteplici e si intrecciano tra loro», spiega Giorgia Serughetti, filosofa ed esperta di questioni di genere. «C’è il potere economico di chi retribuisce e c’è un sistema di potere di genere, che si intreccia con altrettante forme di diseguaglianza, essere straniera, nera, povera, in condizioni di lavoro precarie».

Nel 2022 il movimento transfemminista Non una di Meno ha avviato un’autoinchiesta sulle condizioni di lavoro post pandemia, attraverso un questionario anonimo. La maggioranza riferisce di battute sessiste, interazioni fisiche non richieste e commenti sul fisico oltre a una quasi totale sfiducia nel denunciare le molestie subite, non sapere a chi rivolgersi, che significa cercare soluzioni autonome e spesso limitanti della propria libertà e della propria carriera.

Alla radice

Secondo Bonu Rosenkranz c’è un forte intreccio tra i contesti culturale, economico e sociale: «Se ignoriamo questo legame non riusciamo a leggere la realtà, non capiamo cosa sono le oppressioni. Questo è il problema di come si attuano le politiche di genere, cioè non considerando che anche il modello economico agisce in maniera completamente diversa sulle donne».

L’Oil, l’agenzia Onu specializzata sui temi del lavoro e della politica sociale, nel 2019 ha approvato la Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, che definisce come «un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere». Per la prima volta un organismo internazionale afferma che le molestie sul lavoro sono un fenomeno globale, senza confini. L’Italia, nel 2021, è stata il secondo paese europeo, e il nono al mondo, a ratificarla.

La vera novità della Convenzione è la definizione di luogo di lavoro: non solo il posto nel quale il lavoro si svolge, ma anche i luoghi di retribuzione, le trasferte, gli alloggi messi a disposizione, le comunicazioni e gli spostamenti. Inoltre, la tutela si estende a persone che lavorano indipendentemente dallo status contrattuale, persone in formazione, tirocinanti e apprendisti, lavoratrici e lavoratori licenziati, volontari, chi è alla ricerca di un impiego e la datrice o il datore di lavoro.

In un rapporto gerarchico di questo tipo, dove nella maggior parte dei casi sono gli uomini a ricoprire posizioni di potere, è ancora più difficile parlare. La violenza contro le donne e il fenomeno mafioso, spiega Paola Di Nicola Travaglini, giudice del Tribunale di Roma, hanno in comune tre elementi: «La normalizzazione di un fenomeno criminale, l’assuefazione e l’omertà. La donna che parla paga un prezzo, perde il lavoro, viene demansionata o trasferita».

Il luogo di lavoro spesso non è un contesto favorevole all’ascolto di segnalazioni. Nonostante gli atteggiamenti abusanti siano davanti agli occhi di tutti, emergono solo se è possibile denunciare anonimamente o quando la situazione diventa ingestibile.

Ne è un esempio il caso dell’agenzia pubblicitaria We Are Social, negli scorsi mesi oggetto di testimonianze su una chat sessista e discriminatoria, di cui facevano parte 80 dipendenti uomini della sede di Milano, e in generale di un contesto lavorativo tossico. Sulla chat si commentavano i corpi delle colleghe, oggettificandoli e sessualizzandoli, con frasi come: «È talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la scoperei comunque, di prepotenza».

Erica Mattaliano, ex dipendente, ritiene che sia un problema sistemico delle agenzie pubblicitarie, strettamente collegato alle condizioni di sfruttamento lavorativo consentito dai contratti collettivi, per cui il lavoro delle persone viene via via svalutato a fronte di un continuo ribasso che favorisce i clienti. Mattaliano, che in quegli ambienti ha invece subito mobbing, ha inviato una segnalazione formale senza avere risposte: «Anche in quel caso per quanto ho visto e mi è stato riferito non è stato fatto nulla ed è responsabilità aziendale, nessuno sembra aver avuto voglia di indagare. Che io sappia non sono state mandate lettere di richiamo né è stato licenziato chi metteva in atto quei comportamenti sessisti», dice, precisando che alcuni hanno avuto «scatti di livello e promozioni». In un clima crescente di tensione l’ex dipendente, dopo due anni e due mesi, ha dato le dimissioni. L’azienda ha introdotto strumenti di contrasto, ma per Mattaliano esitavano a riconoscere quello che stava accadendo per paura di rovinare la reputazione aziendale: «Che io sappia, non vogliono prendersi la responsabilità di portare avanti una lotta, perché potrebbero rischiare di perdere clienti».

L’oggettificazione delle donne e l’esposizione costante allo sguardo e al giudizio maschile sono frutto di modelli culturali, accettati e presenti in ogni contesto. «Negli anni del berlusconismo», dice Serughetti, «si è legittimato pubblicamente un rapporto di subalternità delle donne allo sguardo e al potere maschile. Berlusconi è stata la risposta machista al femminismo». Per la ricercatrice, uno degli uomini più potenti e in vista, da un lato ha contribuito ad aprire la via al neoliberismo, dall’altro ha sdoganato un certo modo di trattare le donne, anche sul luogo di lavoro, «intercettando perfettamente il tempo del precariato selvaggio».

Ridefinire

Il tentativo di ridimensionare la molestia a scherzo avviene sui giornali, nei contesti lavorativi e persino da parte delle istituzioni. L’Italia è stata più volte condannata dalle organizzazioni internazionali per la violenza istituzionale e la vittimizzazione secondaria riprodotte da chi è chiamato a giudicare: il Comitato Cedaw nel 2022 ha ammonito i magistrati italiani sottolineando che «stereotipi e pregiudizi di genere nel sistema giudiziario hanno conseguenze di vasta portata sul godimento dei diritti umani» delle donne, «distorcono le percezioni e portano decisioni basate su credenze di preconcetti piuttosto che su fatti rilevanti», creando così una cultura dell’impunità.

Serughetti evidenzia come sminuire gesti e comportamenti indesiderati «crei una sorta di disagio cognitivo». Una condizione di confusione sui codici che vivono anche le stesse donne: «Tu stessa ti chiedi se quel fastidio lo puoi manifestare», aggiunge, «perché sei nel giusto e stai stigmatizzando un comportamento abusivo, oppure se sei tu che non sai stare dentro i codici dell’ambiente in cui ti muovi». E, di conseguenza, la donna che subisce queste condotte mette in atto comportamenti preventivi. Ad esempio, decide di non andare più alla macchinetta del caffè, per evitare di vedere la persona che molesta, «rinunciando a un pezzetto di libertà, di diritto all’uso degli spazi condivisi», prosegue.

Occorre dunque uno sforzo di definizione. «Una molestia sui luoghi di lavoro», spiega Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna, associazione che gestisce diversi centri antiviolenza e il numero nazionale 1522, «è l’utilizzo da parte degli uomini del privilegio di invadere la sfera intima di una donna e usarlo pensando che questo dia il diritto di guardare le donne come qualcosa di subalterno e a proprio servizio». Di Nicola Travaglini precisa l’obiettivo di quel comportamento: «Serve ad affermare chi ha potere», dice, «un modo per ristabilire l’ordine gerarchico». Una palpata, l’invio di una foto dei genitali, l’invito o il complimento non richiesti sono tutte forme di molestia.

Manca il reato

Nel nostro codice penale non esiste un reato di molestia sessuale: o si applica quello di violenza sessuale, o viene derubricato a molestia o disturbo alle persone, punita con massimo 516 euro di ammenda e spesso applicata alle controversie di vicinato. Di Nicola Travaglini spiega che ci sono altre opzioni possibili, come il reato di diffamazione e stalking, ma sono fattispecie «nate per altro tipo di condotte e quindi utilizzate in maniera surrettizia per le molestie sui luoghi di lavoro», per cui è essenziale introdurre la norma nel codice penale. «Non solo il reato richiede al Parlamento di soffermarsi su un fenomeno criminale e culturale studiandone l’estensione, ma consente anche a chi lo subisce di riconoscersi come vittima di un reato». Senza, continua la giudice, la Convenzione Oil non è sufficiente, aiuta solo dal punto di vista interpretativo.

La senatrice Valeria Valente è prima firmataria del disegno di legge che istituisce il reato di molestia sessuale, anche nei luoghi di lavoro, corroborato da altri strumenti, come i comitati unici di garanzia, gli ispettorati del lavoro e campagne di comunicazione. È prevista la pena della reclusione da due a quattro anni, aumentata della metà se la molestia avviene in un rapporto di educazione, istruzione o formazione, oppure «in un rapporto di lavoro, di tirocinio o di apprendistato, anche di reclutamento o selezione, con abuso di autorità». «Non sono favorevole all'istituzione di nuove fattispecie di reato e so che non è il principale strumento di contrasto», spiega Valente, «ma ci sono ancora troppi casi in cui è difficile utilizzare le norme esistenti o provare i fatti in sede processuale». Un disegno di legge che stava per essere approvato nella scorsa legislatura ma che poi è stato accantonato.

Per Elisa Ercoli la priorità non è istituire il reato perché «condivido la filosofia della legge 66 del 1996: la violazione dell’intimità sessuale è violenza sessuale, in qualunque forma». Occorre piuttosto, spiega, trovare «strumenti che responsabilizzino i datori di lavoro delle violenze agite nel loro ambiente».

La Convenzione Oil richiede l’attuazione di misure di prevenzione e di contrasto, anche attraverso sistemi di monitoraggio, ricorso, risarcimento e sostegno per le vittime, misure sanzionatorie, attività educative, formative, di sensibilizzazione, meccanismi di ispezione e indagine, anche attraverso gli ispettorati del lavoro. Alcuni di questi strumenti fanno già parte del nostro ordinamento ma rimangono spesso lettera morta, come si vedrà nel corso di questa inchiesta.

Cosa fare

C’è qualche segnale di cambiamento: molte aziende hanno iniziato a fare corsi di formazione, anche e soprattutto spinte da agevolazioni fiscali. Sono infatti previsti esoneri dal versamento dei contributi previdenziali, premialità per la partecipazione a gare e bandi pubblici e un più facile accesso a finanziamenti europei e nazionali per chi ottiene la certificazione della parità di genere. Il sistema della certificazione è stato adottato grazie ai fondi del Pnrr per incentivare le imprese ad adottare policy adeguate a ridurre il divario di genere.

Nel 2015 è stato invece introdotto un congedo per la fuoriuscita dalla violenza, destinato alle lavoratrici, con cui è possibile richiedere all’Inps un’indennità per l’astensione dal lavoro fino a tre mesi. L’indennità è garantita durante percorsi certificati dai servizi sociali, dai centri antiviolenza o dalle case rifugio e «ha assimilato il luogo di lavoro al contesto familiare poiché anche lì si forma l'identità della persona», spiega Federica Scrollini della Cooperativa sociale Befree. «Quindi anche in caso di molestie o violenze sui luoghi di lavoro», continua, «si ha diritto al congedo se si sta seguendo un percorso».

Con l’introduzione della Convenzione Oil, le imprese hanno iniziato a chiedere una formazione specifica a soggetti che si occupano di violenza di genere, come Befree. La cooperativa ha organizzato corsi per enti pubblici. «Prepariamo le Rappresentanze sindacali unitarie e aziendali ad accogliere eventuali racconti di molestie sul lavoro», dice Scrollini, precisando che il passaggio successivo è l’invio ai centri antiviolenza, «in modo che si attivino due percorsi: quello aziendale e quello di rielaborazione del vissuto, del sostegno psicosociale e giuridico alla persona che ha subito questa esperienza».

Chi si occupa di contrasto alla violenza sottolinea l’importanza di ricondurre il fenomeno delle molestie sul lavoro nella cornice della convenzione di Istanbul - trattato del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica - «altrimenti c’è il rischio di confondere la violenza di genere», prosegue Scrollini, «con il mobbing e le discriminazioni generali».

Le aziende, sottolinea Elisa Ercoli, devono essere sempre più consapevoli della loro responsabilità sulla qualità delle relazioni all’interno del mondo del lavoro: «Devono prevenire la violenza, contrastarla e perseguire chi compie un reato all'interno dell'azienda», spiega, e oltretutto conviene: dove si vive bene è provato che si produca di più. E conclude: «Le aziende su questo possono fare più di chiunque altro, perché ormai sono tra i pochissimi luoghi collettivi».

Il datore di lavoro è direttamente responsabile della salute, della sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori. E se non avvia un procedimento disciplinare, in caso di comportamenti abusanti, si rende inadempiente. «Consentire situazioni del genere è disfunzionale e distruttivo, ma ha un vantaggio: mantenere fermo il potere», dice la giudice Di Nicola Travaglini, per cui lo strumento più efficace per mettere fine al problema è culturale: «C’è bisogno di intolleranza sociale verso il fenomeno».

Così come servono fondi. Negli ultimi anni sono state introdotte diverse leggi a costo zero e l’erogazione dei fondi del piano antiviolenza è in ritardo di anni. «Il mondo non lo cambiamo a fondi zero», conclude Ercoli, «servono campagne, formazione, sensibilizzazione, serve cambiare i modelli relazionali».

(1 – continua)

Con questo articolo sul mondo del lavoro, sulle discriminazioni e sui rischi che corrono le donne e le altre soggettività, parte l’inchiesta finanziata da lettrici e lettori di Domani sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro e sugli strumenti adottati, o non adottati, dalle aziende per contrastare questi comportamenti. Puoi sostenere l’inchiesta a questo link.

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