- Comprare una fettina già incartata è facile, forse non lo sarebbe altrettanto se la stessa venisse lavorata di fronte al cliente direttamente dalla carcassa dell’animale
- La continua esposizione di fettine, petti, filetti, würstel, nuggets, la maggior parte già impacchettati dalla Gdo ci fa dimenticare che quelli che abbiamo davanti a noi sono animali
- Mentre per secoli le nature morte hanno riempito le gallerie dei musei, oggi sui social foto come quella della testa d’anatra impiattata al Noma suscitano ondate di indignazione
Avete mai provato a ripetere una parola tantissime volte di fila? Che cosa succede? La parola perde di significato, diventa un suono, una litania che solo lontanamente mantiene gli echi del suo soggetto. Lo stesso procedimento può essere applicato anche ad altri campi: la ripetizione ossessiva e l’abitudine, fanno si che un oggetto o un evento perdano di valore, di significato, e diventino una normalità priva del suo significato originale.
Anche la carne rientra in questo discorso. La continua esposizione di fettine, petti, filetti, würstel, nuggets, la maggior parte già impacchettati dalla Gdo, espone il cliente finale ad una normalizzazione dell’elemento (divenuto una forma astratta), alla congiunta perdita di significato e provenienza. Ci si dimentica che di fronte a noi ci sono degli animali.
Non è questo il luogo per disquisire sull’eticità del mangiare carne o meno, sugli allevamenti intensivi, sulla Gdo e sull’impatto sociale della catena alimentare carnivora (volentieri lascio il timone ad altri più preparati sull’argomento), l’idea è di capire come la forma (o immagine finale) influisca sulla nostra percezione alimentare, la modifichi e ci porti ad attuare delle scelte che, senza volerlo, sono figlie di questo annichilamento della forma. Perché se comprare una fettina già incartata è facile, forse non lo sarebbe altrettanto se la stessa venisse lavorata direttamente di fronte al cliente direttamente dalla carcassa dell’animale.
Nature morte
Nella foto dell’articolo gli animali vengono rappresentati similmente ad un quadro: adagiati su un tavolo di marmo (ricordo del macello o dell’obitorio) o appesi ad un muro, circondati da uova intere e rotte (un rimando alla vita e alla morte dell’animale). Il tutto illuminato da una luce dura che crea un chiaroscuro volumetrico sul panneggio inferiore e sugli animali. L’immagine non è mera rappresentazione delle gioie di caccia o della cucina, quelle verranno a seguire, ma diventa un delicato ossequio agli animali, reso con rispetto e cognizione di causa, quella che ognuno di noi dovrebbe portare con sé in ogni scelta.
Le nature morte pittoriche hanno riempito i saloni di musei e case nobiliari per centinaia di anni: lepri, fagiani, pesci, spesso trofei di caccia, venivano ritratti nella loro interezza, quasi sempre adagiati su tavoli o bancali, ancora con pelo, piume o squame attaccati ai corpi esanimi, spesso accompagnati da oggetti provenienti dalle cucine o da ortaggi e frutta.
Oggi, con una sensibilità diversa e una profondità decisamente minore, dai social (moderna galleria museale) scompaiono le immagini in cui la morte animale viene rappresentata e nel caso apparisse una testa d’anatra (si ricordi il Noma), si leva lo scudo dell’indignazione pubblica e la foto viene eventualmente rimossa. L’animale non viene esposto come trofeo di caccia (immagini che sviliscono la natura dell’essere a favore della semplice auto-celebrazione del cacciatore, queste si) ma viene presentato come elemento di una semiotica culinaria in cui il cuoco (René Redzepi) ci ricorda da dove il nostro piatto sia arrivato. Di cosa sia fatto e come sia arrivato sulla sua tavola.
Eppure l’opinione del consumatore social non accetta questa visione e si ferma all’aspetto macabro della visione. Lo stesso consumatore che magari, pochi minuti dopo, metterà un like automatico a un hamburger al sangue.
L’assenza di senso critico
Questa discromia cognitiva è il frutto di una mancanza effettiva di senso critico relativo al mondo dell’immagine ma anche di una maggiore attenzione etica all’aspetto alimentare: se da un lato gli analfabeti visivi sono incapaci di valutare e relazionarsi con un’immagine (qualunque essa sia) dall’altro abbiamo una crescita critico-etica legata al mondo dell’alimentazione che però porta ad esasperare la forma a discapito del contenuto o dell’intenzione. Senza poi dimenticare il media sul quale questa diatriba si svolge, ovvero i social: moderno far west in cui spazio e tempo sono destinati all’oblio senza pietà, vittime di una stratificazione infinita di contenuti e del continuo refresh di mode, tendenze e tecniche.
Un po’ come i dipinti: nascosti in bella vista in qualche casa aristocratica lontana dal mondo, oppure rinchiusi e inscatolati negli archivi dei musei. Stratificazioni storiche che ritornano, per immagini di cui abbiamo già dimenticato il movente.
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