- Chi ha parlato negli ultimi anni con Francesco De Bartolomeis – per fortuna ci sono molte interviste anche recenti in rete – può dire che era veramente riduttivo definirlo “lucido” nonostante fosse ultracentenario.
- De Bartolomeis non è stato soltanto uno dei più grandi pedagogisti italiani, ma è stato fino alla fine una delle intelligenze politiche più generose e visionarie di questo paese.
- Il suo proposito era liberare la pedagogia dall’univoco riferimento alla scuola per riportarla nella complessità di tutto il sistema formativo. Secondo De Bartolomeis, infatti, non si possono separare il diritto all’istruzione e il diritto all’educazione.
Chi ha parlato negli ultimi anni con Francesco De Bartolomeis – per fortuna ci sono molte interviste anche recenti in rete – può dire che era veramente riduttivo definirlo “lucido” nonostante fosse ultracentenario.
De Bartolomeis non è stato soltanto uno dei più grandi pedagogisti italiani, ma è stato fino alla fine una delle intelligenze politiche più generose e visionarie di questo paese. Meno di un anno fa, a 104 anni, commentava proprio su questo giornale l’insediamento di Valditara, delineando un’idea completamente alternativa per le politiche scolastiche.
La vita
Francesco De Bartolomeis è nato a Pellezzano in provincia di Salerno nel 1918 ed è morto a Torino il 29 giugno scorso, e il suo essere larger than life lo raccontava lui stesso quando ricostruiva il suo quasi secolare percorso intellettuale.
Il suo primo articolo, ci teneva a ricordare l’aveva pubblicato prima della guerra perché era piaciuto a Benedetto Croce.
Cresciuto nella scuola fascista, De Bartolomeis aveva ben presto le distanze da quella cultura, soprattutto attraverso lo studio di testi inglesi e francesi. Faceva parte di quella generazione che attraversò e dovette il difficile passaggio dalla cultura fascista a quella della repubblica democratica (un passaggio non ancora concluso, a quanto pare). Laureatosi in filosofia, a ventisei anni, nel 1944 pubblicò il suo primo libro, Idealismo ed esistenzialismo (Ricciardi, Salerno) con la prefazione anche in questo caso di Benedetto Croce.
De Bartolomeis, pur riconoscendo la statura intellettuale di Giovanni Gentile, rifletteva sui limiti della sua filosofia e della sua pedagogia. Dopo la guerra si trasferì a Firenze, dove insegnava il suo maestro, Ernesto Codignola. Scrisse sulla rivista Letteratura insieme a Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Arturo Loria ed altri, e negli stessi anni Adriano Olivetti, usando il tramite del Ponte di Piero Calamandrei, gli chiese di collaborare alla rivista Comunità.
Da lì iniziò una collaborazione con la Olivetti che proseguì per molti anni. Durante i suoi anni torinesi (De Bartolomeis passò all’Università di Torino nel 1956) fu coordinatore generale della scuola di formazione dell’Olivetti. Si occupò della formazione del personale e degli insegnanti delle scuole dell’infanzia aziendali. Tutto ciò non fu un caso ovviamente. Era il suo modo di intendere la pedagogia, la disciplina a cui si dedicò nel dopoguerra.
Il suo proposito era liberarla dall’univoco riferimento alla scuola per riportarla nella complessità di tutto il sistema formativo. Secondo De Bartolomeis, infatti, non si possono separare il diritto all’istruzione e il diritto all’educazione.
Il diritto all’educazione
Per rendere reale il diritto all’educazione è necessario costruire un sistema formativo allargato, cioè coordinare le attività formative esercitate da soggetti diversi (scuola, enti locali, associazioni). Sembra un’utopia ma era il precipitato di una generazione luminosa di riformisti molto radicali, di cui De Bartolomeis era un leader indiscusso. Grazie a lui si cercò di realizzare concretamente questo sistema integrato tra gli anni Settanta e Ottanta in alcune città italiane governate dalla sinistra (Torino, Bologna, Firenze, Rimini) con al collaborazione delle amministrazioni.
A queste esperienze De Bartolomeis dedicò un libro, Fare scuola fuori della scuola, che è stato ripubblicato qualche anno fa, nel 2018, da Aracne.
Il momento chiave che i necrologi speriamo numerosi di questi giorni ricorderanno è stata la pubblicazione de La pedagogia come scienza (1953), il testo a cui seguirono studi sull’educazione inglese, su Decroly, Montessori (Maria Montessori e la pedagogia scientifica, La Nuova Italia, 1961), Pizzigoni e sulla scuola attiva in genere.
Nel volume del 1953 De Bartolomeis compieva un gesto intellettuale importantissimo; rompeva definitivamente con la tradizione spiritualista e idealista in nome di una pedagogia scientifica che si nutrisse dei dati positivi delle scienze dell’educazione. La sua idea di scientificità non era però banalmente positivista: punto di vista scientifico vuol dire assunzione di un «atteggiamento critico e sperimentale verso i problemi educativi». L’insegnante è un ricercatore, non un trasmettitore di nozioni. Il suo compito principale non è “insegnare” ma operare affinché l’altro possa apprendere (non solo contenuti ma anche e soprattutto un metodo e capacità di problematizzare). Di qui la necessità di possedere un metodo fondato sulla ricerca, la sperimentazione e la documentazione. Il metodo dell’insegnante, sostiene De Bartolomeis, è in funzione del metodo dell’allievo. E aggiunge: «Gli oppositori del metodo, mentre danno a vedere di parlare a nome della libertà e della spontaneità del processo educativo, non sanno opporre altro che la routine scolastica… Nella loro pratica il metodo è costituto dall’ossequio ai programmi, all’orario, ai libri di testo…» (I metodi nella pedagogia contemporanea, altro testo bellissimo e reperibile, perché ripubblicato in ebook nel 2021).
Un’esperienza innovativa
Per formare insegnanti con competenze di ricerca e organizzative, negli anni Settanta De Bartolomeis iniziò a Torino un’esperienza innovativa per l’università italiana: invece di fare lezione ai suoi studenti istituì un sistema di laboratori, diventati poi leggendari. Se a scuola si deve imparare a fare ricerca (La ricerca come antipedagogia fu uno dei suoi libri più fortunati, 60mila copie per Feltrinelli negli anni settanta) è necessario che gli insegnanti possiedano i suoi strumenti. È un principio che lo stesso De Bartolomeis definì di «sconcertante banalità»: «per insegnare qualcosa (ma più propriamente si tratta di mettere gli allievi in condizione di apprendere e di produrre) bisogna averne fatto personale esperienza» (Il sistema dei laboratori, Feltrinelli, 1978).
È un principio che dovrebbe dire molto a quell’università che deve preparare i futuri insegnanti (proprio in questi giorni sta per essere varata la nuova riforma), mentre oggi è difficile superare il modello dell’insegnamento simultaneo e collettivo proprio perché è questo il modello che accompagna il futuro insegnante in quasi tutto il suo curricolo formativo.
Negli ultimi anni della sua vita De Bartolomeis, anche dopo l’improvvisa e dolorosa scomparsa del figlio, si dedicò in modo particolare alla sua attività di critico d’arte. già iniziata negli anni Cinquanta. Nel 2022 pubblicò tre libretti sull’educazione artistica (si possono trovare da Zerosei editore). Fortunatamente della sua immensa produzione editoriale, oltre ai volumi citati sopra, oggi abbiamo a disposizione anche La scuola nel nuovo sistema formativo. Problemi e esperienze (Aracne, 2022), un testo in cui De Bartolomeis riprende i temi fondamentali di una didattica sostenuta dalla ricerca. E sarà anche presto ripubblicato Scuola a tempo pieno, un volumetto che negli anni settanta ebbe un ruolo importante nei cambiamenti in atto nella scuola.
Spiace non essere riusciti a registrare fino alle ultime settimane le conversazioni con lui. Era un uomo generoso, intransigente, e ironico, ostile a qualunque mediocrità, e pieno di speranza nel futuro anche a 105 anni.
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