Quasi quattro anni dopo la morte del giovane guineano Moussa Balde nel Cpr di Torino, il processo entra in una nuova fase. Mercoledì 12 febbraio si è tenuta la prima udienza in tribunale. Una storia che descrive bene il buco nero dei centri migranti, pallino del governo di Giorgia Meloni, che ne vuole realizzare altri in Italia nonostante il grande flop di quelli costruiti a carissimo prezzo in Albania. Sul banco degli imputati, con l’accusa di omicidio colposo, ci sono l’ex direttrice del centro di permanenza per il rimpatrio e il suo ex responsabile sanitario. Entrambi avrebbero omesso i controlli necessari a prevenire il rischio suicidario dei trattenuti, violando le linee guida previste per i centri di detenzione.

Sotto indagine è anche la mancanza di protocolli finalizzati a gestire il disagio psichico delle persone detenute nel centro, come nel caso di Balde, che a maggio 2021, dopo aver subito un pestaggio a Ventimiglia ed essere stato trovato senza documenti, era stato rinchiuso per giorni nel cosiddetto ospedaletto del Cpr. In quella stanza, utilizzata come luogo di isolamento sanitario, Moussa Balde si è tolto la vita. «Per la prima volta, la morte di un migrante non è stata derubricata e Moussa Balde è stato riconosciuto come vittima del sistema Cpr» dice Gianluca Vitale, avvocato difensore della famiglia del migrante morto nel Cpr.

Parlano i familiari

Amadou Thierno Balde, fratello più grande di Moussa, ha deciso di assistere all’inizio del processo insieme a sua madre Djenabou. Sostenuti da una rete di volontari, hanno raggiunto l’Italia dalla Guinea con Mariama Sylla, sorella di Ousmane, il connazionale 22enne morto suicida nel Cpr di Roma a febbraio 2024. Accolti dalla rete civica torinese No Cpr, Thierno e sua madre raccontano il desiderio di Moussa di raggiungere l’Europa e il percorso difficile che ha incontrato al suo arrivo.

Moussa era diplomato come elettricista e prima di partire stava cercando lavoro.

«Ogni mattina alle 5 aiutava sua madre nel negozio di famiglia, poi andava a seguire dei corsi, ma la situazione era difficile e voleva fare di più», spiega Thierno. «Una sera lo aspettavano a cena e non si è presentato: aveva deciso di partire». Dopo un periodo trascorso a lavorare in Algeria con il fratello, che studiava all’università per diventare ingegnere, Moussa riesce a imbarcarsi dalla Libia, nonostante i tentativi della famiglia per convincerlo a tornare in Guinea e a non correre altri pericoli.

Quando arriva in Italia, Moussa cerca lavoro a Imperia, dove prova a imparare l’italiano. Agli amici che gli propongono di spostarsi in Germania risponde che vuole restare: «Diceva che era stata una nave italiana ad aiutarlo ad arrivare lì e che quindi sentiva di dover rimanere», dice Thierno. Accanto a lui, sua madre ha lo sguardo provato. Moussa le voleva comprare un cellulare per potersi tenere in contatto. Di lui ricorda un video in cui le parlava in italiano, fiero di aver imparato la lingua.

I problemi iniziano due anni dopo l’ingresso di Moussa in un centro di accoglienza ligure. Secondo Thierno, un giorno suo fratello si era spaventato: «Aveva visto sul pc del direttore del centro alcune foto della sorella, che lui sentiva in videochiamata, e si era preoccupato. Aveva deciso di allontanarsi dal centro ed era diventato diffidente, per strada si sentiva seguito». Moussa lascia il centro di accoglienza e si avvicina al centro sociale La talpa e l’orologio di Imperia, dove riceve sostegno e supporto legale per fare domanda di protezione internazionale. La sua richiesta di soggiorno però non riceve riscontro e Moussa, in cerca di un posto in cui stare, ritorna al centro di accoglienza che aveva lasciato, ma per lui non c’è più posto. Da quel momento la famiglia di Moussa perde le sue tracce. Verrà filmato alcuni giorni dopo, mentre subisce una violenta aggressione di gruppo davanti a un supermercato di Ventimiglia.

Quando il 23 maggio Moussa Balde si toglie la vita, si trova nel centro per il rimpatrio da quasi due settimane. Secondo gli inquirenti, quando viene trasferito a Torino le ferite che ha sulla testa, dovute al pestaggio subito il giorno prima, sono ancora fresche ed evidenti. Nonostante questo e i ripetuti solleciti della Garante comunale rivolti all’ex direttrice del centro per verificare la presenza all’interno del Cpr di un cittadino guineano con possibili problemi psichici proveniente dalla Liguria, Moussa non viene identificato.

I due imputati sarebbero dovuti intervenire per far sì che venisse visitato e vigilare sul suo stato di salute precario, ma secondo l’accusa ciò non avviene.

«Menzogne dell’autorità»

L’indignazione generale per la morte di Balde aveva fatto chiudere l’ospedaletto, che secondo il Garante nazionale configurava «un trattamento inumano e degradante». Nella stessa stanza, nel 2019, era morto anche Faisal Hussein, un cittadino bengalese lasciato in isolamento per sei mesi. La storia del centro torinese era proseguita tra rivolte interne e proteste fino a marzo 2023, quando gli incendi appiccati dai trattenuti hanno reso il Cpr inagibile.

Ora il centro si prepara a riaprire. Thierno e gli altri parenti delle vittime, però, non vogliono che quello che è successo in questo luogo a Moussa, e nel Cpr di Roma a Ousmane, succeda anche ad altre persone. «Alla giustizia italiana noi chiediamo sincerità e trasparenza», dice Thierno. «Vogliamo che le istituzioni si rendano conto di come ci hanno mentito e di come trattano le persone che vengono messe in questi centri di detenzione».

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