Nel giorno in cui Adam Silver, il commissioner dal sorriso monocorde, ha esposto ai trenta padroni della Nba il piano di colonizzazione del basket europeo, un altro pezzo di continente è venuto giù. L’impalcatura non regge e l’Europa è sempre più rattrappita. Vecchio continente. Forse troppo. «Stiamo valutando di continuare a sviluppare la pallacanestro in Europa. Siamo pronti a passare alla fase successiva, ovvero a esplorare un potenziale campionato in Europa con la Fiba come partner».

Sono le 19.44 quando Silver, insieme al segretario generale della Fiba, Andreas Zagklis, scuote i pilastri del basket mondiale. Non è solo sport. Non è nemmeno solo business. È una di quelle manovre che raccontano il mondo più di quanto facciano le strette di mano a Bruxelles. È geopolitica con la palla a spicchi.

L’Europa, che negli ultimi anni ha dato alla Nba i suoi migliori giocatori (da Doncic a Jokic fino Antetokounmpo) ora si ritrova corteggiata, ma non amata. Perché una cosa è vendere i talenti, un’altra è affittare il salotto buono. E Silver ha bussato alla porta dell’Europa proprio per quello. Il progetto è lì, pronto a spogliarsi davanti al mondo: una lega Nba europea, sotto l’ombrello benevolo della Fiba e fuori dalla casa madre dell’Eurolega, trattata con la grazia di un’amante respinta.

L’amore non c’entra, qui si fanno i soldi. «La risposta che abbiamo ottenuto dal mercato è molto positiva. Il basket è il secondo sport in Europa. È molto popolare. Centinaia di milioni di fan. Circa il 15% dei giocatori dell'NBA in questo momento proviene dall'Europa. Cinque degli ultimi sei MVP sono stati europei. Ma c’è un enorme divario tra l’interesse e lo sviluppo dello sport».

Chi può aderire

Il portale americano Sportico, che si occupa di business e sport, ne aveva dato valide anticipazioni. L’Équipe le ha confermate con l’eleganza del dubbio: fino a sedici squadre, gettone d’ingresso da mezzo miliardo di dollari, possibili sedi a Parigi, Manchester, Berlino, Monaco. Metropoli dove si possono fare affari. E l’odore di petroldollari e investitori sovrani inizia già a permeare l’aria come una fragranza esotica: Qatar Sports Investments per Parigi, Abu Dhabi United Group per Manchester. Adam Silver afferma che «siamo ancora nella fase di modellazione. di come potrebbero essere i prossimi passi, ma il campionato potenziale continuerebbe a giocare nello stesso stile attuale del basket europeo, compresi i quarti da 40 minuti».

Sotto la superficie del marketing e dei loghi luccicanti si cela qualcosa di più, di peggio. Silver non è venuto a regalare spettacolo. È venuto a esercitare pressioni. L’annuncio della riunione e l’invito a cena senza la padrona di casa: l’Eurolega. Tutto racconta di una strategia che non cerca partner, ma territori. Dopo il gran rifiuto di marzo 2024, la Nba ha alzato il volume, ha sondato club di calcio sempre alla ricerca di nuovi modi per far circolare il marchio. Volete entrare nel business più globalizzato del pianeta? E loro, ovviamente, hanno detto perché no. PSG, Real Madrid, City.

C’è poi l’Italia. Niente Bologna (Basket City). Forse Milano (con la sua finanza e il fashion). In questa specie di piano Marshall al contrario Roma diventa la città migliore possibile. Non ha una squadra in Serie A, ma ha il Colosseo, l’eternità, la bellezza: tutte quelle cose che la rendono un luogo ideale per dare il benvenuto alla nuova carovana nel basket. E lo stesso vale per Londra e tutte quelle big city in cui lo spazio per la pallacanestro non manca.

C’è stato un tempo in cui le relazioni tra America e Europa erano legate da un reciproco fascino. Da questa parte del mondo era tutto un American dream, i grattacieli, il rock, la pop art, il surf. L’America la guardavi in tv e ti bastava desiderarla per poterla raggiungere. Di là dall’oceano il Vecchio Continente continuava ad avere il suo antico appeal. Una tensione tra due poli che il cinema ha sublimato per decenni: il mainstream, il cinema pop-corn da un parte, e dall’altra le pellicole d’autore, con il loro bianco e nero patinato. Ma qui non siamo al cinema.

Non più esibizioni

Lo sport anticipa. E lo ha fatto anche questa volta. Mettendo fine a quella reciproca attrazione per far valere le leggi di mercato. Sì, belle le tradizioni. Ma l’America vuole fare quello che dice lei. Un tempo bastavano i tour. Andavi a vedere gli Harlem Globetrotters o le partite dimostrative che gli Usa si concedevano di tanto in tanto. Oggi le esibizioni sono finite. Sta succendo con l’Nfl. Cominciò nel ottobre 2007, quando si giocò per la prima volta nella storia una partita fuori dagli Stati Uniti tra i New York Giants e i Miami Dolphins allo stadio di Wembley.

Negli anni successivi il numero di partite giocate all’estero è cresciuto, fino ad arrivare a cinque nel 2022 (tre a Londra, una a Monaco di Baviera e una a Città del Messico) e nel 2023 (di nuovo tre a Londra, e poi due a Francoforte). Quest’anno per la prima volta si giocherà una partita della stagione regolare anche a Madrid, al Santiago Bernabeu.

Tutte le sfide hanno avuto un gran successo di pubblico, riempiendo impianti da oltre 60mila posti come Wembley e lo stadio del Tottenham, costruito apposta per ospitare anche partite di football americano con un sistema che sostituisce il terreno da calcio con quello da football.

E non è da meno l’atletica. Grand Slam Track, il progetto ideato dall’ex campione olimpico Michael Johnson, è già realtà. Una competizione professionistica tra gli atleti d’élite del panorama mondiale, che competono tra loro quattro volte all’anno in mega-eventi. Con gli stessi obiettivi di una Superlega: promette di rivoluzionare il mondo dell’atletica, garantendo più soldi agli atleti e una visibilità maggiore per tutto il movimento.

Le ombre

Tutti modelli nati nel nome del libero mercato, che alla lunga somigliano sempre di più a una rumble in the jungle. Già monopolizzata da competizioni uniche (vedi la Champions League), l’Europa si era illusa e le aveva scambiate per tradizioni. La rivoluzione del basket rischia di far crollare anche questo.

Adam Silver ha spiegato che «parte dell'interesse di questa iniziativa risiede nella creazione di più strutture di livello Nba in Europa, e questo potrebbe essere un modo per attrarre potenziali investitori e partner».

Tony Parker, presidente dell’Asvel, che dell’Europa e della Nba è figlio legittimo, ha provato a metterci un cerotto, proponendo fusione, dialogo, armonia. Ma mentre parlava di accordi, Silver stava già distribuendo mappe. «Con o senza la partecipazione dell'Eurolega, la Nba sembra determinata a piantare la sua bandiera nel Vecchio Continente», ha scritto L’Équipe.

Certo, qualcuno dirà che i migliori giocatori resteranno in America. Può essere. Qualcuno lo pensa (Nicolas Batum, francese che gioca con i LA Clippers). Ma non è quello il punto. La Nba non vuole svuotare sé stessa: vuole riempire gli altri di sé. È un progetto che non cerca (solo) gloria sportiva: cerca la rendita, il controllo e il copyright sulle emozioni. Vuole canestri nei monumenti, maglie vendute al Louvre, brioche nei palazzetti mentre fuori l’Europa lotta contro le sue paure più profonde.

Lo scenario politico

Le guerre commerciali minacciate, annunciate e preparate da Donald Trump stanno oscurando le prospettive economiche globali. Agli annunci del presidente americano, che ha garantito dazi «sulle auto e su tutto il resto», Bruxelles ha risposto promettendo una ferma reazione. Sono schermaglie, ma sembrano preparare mesti scenari. E la tensione rimane altissima.

Nel momento più basso delle relazioni politiche e diplomatiche tra Stati Uniti ed Europa, ecco che si inserisce la mossa della Nba a spaccare il mercato. Il basket europeo ha già vissuto una scissione nel 2001, quando non si sapeva nemmeno chi fosse il vero campione d’Europa. Il Maccabi della SuproLeague o la Virtus della Uleb? Nessuno se ne ricorda più. E rimuginare non serve.

È la moltiplicazione dei titoli che taglia le gambe alla leggenda. E oggi, tra i tanti pericoli, ce n’è uno più insidioso degli altri: l’illusione che più partite significhino più passione. Ma la passione s’attacca dove c’è un’identità. Non è detto che quella si possa comprare a suon di dollari. O forse sì. In quel caso, l’Europa è già perduta.

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