LeBron e Bronny James, padre e figlio insieme nei Los Angeles Lakers, con la stressa maglia, nella stessa squadra. Nella stagione NBA che prende il via nella notte tra martedì e mercoledì è uno dei temi principali, corre parallelo alla corsa all’anello, Un genitore in campo con suo figlio nella pallacanestro americana non c’era mai stato prima. Li abbiamo visti uno accanto all’altro nelle amichevoli di precampionato, ora sono pronti a scrivere un primato. 

Si sono fatti tantissimi discorsi rispetto a questo evento, tutt’altro che una combinazione: da qualche tempo si diceva che l’ultimo obiettivo rimasto nella carriera di uno dei giocatori più forti di sempre, forse secondo nella storia solo a Michael Jordan, fosse quello di poter disputare una partita in coppia con il primogenito.

Un ragazzo che non sembra essere stato baciato dallo stesso talento del padre (e ci mancherebbe), forse non ne ha neanche in quantità sufficiente per aspirare a un posto in NBA, se non portasse un cognome tanto pesante e se non potesse contare sulla volontà del genitore di provare l’esperienza insieme, tanto da forzare un po’ la mano in fase di rinnovo contrattuale per sé e di scelta al draft alla propria franchigia.

È così che sono arrivati a coronare il sogno, nonostante l’evento che avrebbe potuto spezzarlo, un arresto cardiaco sofferto da Bronny nel luglio del 2023.

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L’altra faccia di LeBron

Dietro la storia del padre che gioca con suo figlio, la NBA ne propone un’altra, un padre che gioca per suo figlio, anzi per i suoi due figli. Lui si chiama Tony Snell. Nella NBA è un gregario come tanti: specialista di difesa e tiro da fuori. C’è entrato da 20esima scelta al draft del 2013 ed è stato per 9 anni in giro tra diverse squadre, fino all’uscita dalla Lega per approdare nella G League, il torneo delle squadre di sviluppo, nel 2022.

Un anno che ha cambiato la vita dell’intera famiglia Snell, non solo per la traiettoria sportiva del padre. Tony e sua moglie Ashley decisero di sottoporre ad accertamenti il figlio maggiore Karter, che dopo 18 mesi di vita sembrava non attraversare le tappe consuete della crescita di un bambino, con apparenti problemi di comunicazione, di comprensione e di relazione. Al piccolo venne così diagnosticato un grave disturbo dello spettro autistico, che successivamente arriverà uguale per suo fratello minore Kenzo.

Il mondo sarebbe potuto crollare addosso a Snell, che si mise con coraggio ad approfondire un altro aspetto, la sua situazione personale, quella che per anni aveva percepito ma su cui non aveva mai indagato. Scoprì di soffrire a sua volta in forma lieve dello stesso disturbo, dandosi una spiegazione su cosa stesse capitando, e unendo i puntini degli eventi che avevano contrassegnato la sua crescita, anni in cui era un ragazzo solitario e silenzioso.

Quello che gli resta ancora da trovare è una nuova opportunità nella NBA, per poter aggiungere un decimo anno di militanza nella Lega, un traguardo che sarebbe cruciale. Avrebbe così accesso secondo il CBA, l’accordo stretto fra sindacato giocatori e proprietari delle franchigie, a un benefit fondamentale per provare ad assicurare il miglior futuro possibile ai suoi ragazzi: l’estensione dell’assicurazione a vita a tutti i membri della propria famiglia, un passaggio dall’importanza capitale in una nazione come gli Stati Uniti dove la privatizzazione della sanità fa crescere il costo delle cure a livelli spesso insostenibili, tanto più per cure ricercate come quelle di cui hanno bisogno Karter e Kenzo.

Tante voci autorevoli si sono fatte sentire. L’ex leggenda Charles Barkley, ora analista tv, ha chiesto uno sforzo alla comunità del basket americano per concedere a Snell l’occasione di un decimo campionato in NBA, non al cestista che vuole mettere in mostra il suo talento, ma al papà che grazie alla pallacanestro, punta a offrire il massimo ai suoi ragazzi.

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