Marco H. è nato in una roulotte di ferro e lamiera. È cresciuto in Italia, con i due genitori e sei fratelli, all’interno del Villaggio della solidarietà di Castel Romano, come fu definito dalla giunta di centrosinistra che istituì uno dei campi mono etnici più grandi d’Italia, luogo poi divenuto il simbolo del fallimento delle politiche di inclusione sociale delle comunità rom nella Capitale.

Nonostante la precarietà degli alloggi, Marco, fin dalla tenera età, è stato sottoposto a tutte le vaccinazioni obbligatorie, così da poter frequentare il ciclo scolastico obbligatorio, scuole elementari, medie, e poi iscriversi e frequentare per quattro anni un istituto professionale di periferia.

Il diritto di Marco 

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 20-12-2017- Roma Cronaca «Fiaccolata per la Cittadinanza», manifestazione a favore dello ius soli. Nella foto Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 20-12-2017- Rome News «Torchlight for Citizenship», a demonstration to support the ius soli. In the picture

Quando Marco compie il diciottesimo anno di età, nel 2019, è abbastanza istruito da sapere quali siano i suoi diritti e, così, si reca presso gli uffici del comune di Roma per formalizzare l’istanza di riconoscimento della cittadinanza italiana, come prevede l’articolo 4 al comma 2 della legge 91 del 1992, laddove fa riferimento al fatto che «lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data».

Tuttavia, le cose non vanno per il verso auspicato dal neo-maggiorenne di origine rom: a più di un anno di distanza dalla presentazione della domanda di cittadinanza, il 25 novembre 2020, una nota del direttore del dipartimento servizi delegati di Roma capitale, rileva che «dalle verifiche effettuate presso la banca dati del comune, nei relativi archivi anagrafici e di stato civile il signor H. non risulta mai essere stato inserito nei registri della popolazione residente del comune di Roma.

Pertanto, mancando uno dei requisiti richiesti dall’articolo citato in oggetto, e cioè la residenza legale e ininterrotta in Italia fino al 18° anno, l’istanza non può essere favorevolmente accolta».

La circolare del Viminale

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Una circolare del ministero dell’Interno datata il 7 novembre 2007, però, ha chiarito che «l’iscrizione anagrafica tardiva del minore presso un comune italiano, potrà considerarsi non pregiudizievole ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, ove vi sia una documentazione atta a dimostrare l’effettiva presenza dello stesso nel nostro Paese nel periodo antecedente la regolarizzazione anagrafica, attestati di vaccinazione, certificati medici in generale».

Di più: il legislatore in passato è intervenuto anche con il decreto legge 69 del 2013, laddove ha previsto che «all’interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione, ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea documentazione».

Sono queste, dunque, le principali basi giuridiche che hanno consentito a Marco H., attraverso il suo avvocato, Salvatore Fachile, che fa parte del direttivo dell’Associazione studi giuridici immigrazione, di contestare davanti al tribunale di Roma l’illegittimità del provvedimento adottato nei suoi confronti dai funzionari romani.

Un provvedimento illegittimo 

Nel ricorso che è ancora pendente davanti ai giudici, l’avvocato Fachile, nel chiedere al tribunale di «accertare l’illegittimità della condotta della pubblica amministrazione», ricostruisce non solo il quadro normativo, ma anche quello giurisprudenziale, che si ritiene alla base della richiesta di riconoscimento della cittadinanza italiana avanzata da Marco H. In particolare, il legale fa riferimento a una sentenza emessa dal tribunale civile di Napoli, in cui si afferma che «qualora l’interessato riesca a provare di essere stato effettivamente residente in Italia dalla nascita sino al raggiungimento della maggiore età, ben può acquisire la cittadinanza italiana non potendo lo stesso subire un pregiudizio a causa di inadempimenti da parte dei genitori non imputabili al medesimo».

Una recente decisione del tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di cittadinanza presentata da un cittadino nomade nato e cresciuto in Italia, aveva stabilito che «la circostanza che egli non abbia certificato anagrafico di residenza è del tutto conforme alla sua condizione di nomade». E dunque aveva concesso al ricorrente la cittadinanza italiana, perché «non risulta che la permanenza dell’attore nel nostro paese sia stata illegale, egli vi è nato e vi ha abitato con la sua famiglia, né sono emersi elementi da cui risulta, che, di fatto, la sua permanenza nel nostro paese sia mai stata interrotta».

Ioan (nome di fantasia) invece, è un ventenne di origine rumena che è divenuto cittadino italiano lo scorso 7 novembre, grazie a una sentenza a lui favorevole emessa dalla giudice del tribunale civile di Roma, Damiana Colella. Già, perché anche a Ioan, il 15 novembre del 2019, l’ufficio anagrafe del XI Municipio, a cui aveva presentato la domanda di cittadinanza quando aveva compiuto 18 anni, ne aveva rigettato la richiesta. Con una motivazione pretestuosa. E cioè che l’uomo non si era presentato negli uffici il giorno previsto dall’appuntamento.

«Essendo scaduto il termine, la richiesta da lei presentata rimane priva di efficacia giuridica», avevano motivato così il diniego gli uffici anagrafici capitolini, senza tenere conto del fatto, però, che la normativa in materia prevede la possibilità di espletare la pratica entro il termine del 19° anno di età. Così, lo scorso 7 novembre, la giudice Damiana Colella ha scritto nella sentenza che il signor Ioan è cittadino italiano, ordinando «alle competenti autorità di procedere alle relative annotazioni e trascrizioni nei registri dello stato civile».

Come un fantasma 

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Claudia M. è diventata cittadina italiana la scorsa estate, quando una sentenza della prima

sezione civile della Corte d’appello di Firenze ha ordinato al «ministero dell’Interno di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile».

La storia della vita di Claudia M. è particolarmente travagliata. Ha 24 anni e per diversi anni ha vissuto come un fantasma, tra Napoli e Roma, senza mai frequentare la scuola dell’obbligo né ricevere un’iscrizione anagrafica. Eppure, è stata ospite da minorenne a spese dello stato, prima in una comunità di accoglienza a seguito della commissione di alcuni reati, poi, in una comunità residenziale protetta, al fine di evitare contatti con la famiglia di origine.

Quando Claudia compie 18 anni, però, sceglie di uscire dall’invisibilità in cui era stata costretta per diversi anni. Comincia a lavorare come cameriera in Toscana, inizia un percorso di semi-autonomia fuori dalle comunità in cui ha sempre vissuto e, prima del compimento del 19esimo anno di età, si presenta al comune di Siena per richiedere la cittadinanza italiana.

Ma gli uffici comunali restano in silenzio; le risponderà soltanto in tribunale, a Firenze, quando i funzionari dell’Anagrafe si difenderanno dalle accuse dei legali della donna evidenziando «come la ricorrente non avesse fornito idonea documentazione comprovante la sua permanenza ininterrotta sul territorio italiano».

Una lunga giurisprudenza 

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Nel giudizio di primo grado, al fianco del comune di Siena, si era costituito anche il ministero dell’Interno, il quale contestava la «sussistenza del presupposto della residenza legale ininterrotta della ricorrente in Italia dalla nascita sino alla maggiore età».

Tuttavia, i giudici di secondo grado del tribunale di Firenze «hanno correttamente valutato le prove circa la sua ininterrotta residenza legale in Italia anche alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale», spiega l’avvocato Fachile che aggiunge: «Esiste una lunga giurisprudenza nel merito. Da Crotone a Milano, quando i comuni negano la cittadinanza agli stranieri nati e cresciuti in Italia, spesso con motivazioni pretestuose, soprattutto alle persone di origine rom, i tribunali ci danno ragione. Perché è la legge che lo prevede».

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