- È l’Italia dei lavoratori stagionali, che percorrono, in una sorta di perenne transumanza, la dorsale del paese, seguendo il calendario antico del raccolto: prima il pomodoro in Campania, poi la vite e l’olio in Sicilia, poi si andrà in Calabria per le arance e poi si tornerà al nord per l’inverno.
- Una baraccopoli nella pancia di metallo ed eternit di un cementificio abbandonato. Lì tre lamiere, un telo di plastica e qualche asse di legno, sono il concetto di casa, dentro ci dormono in tre, quattro. Non hanno acqua, non hanno luce.
- Quest’estate è andata in fiamme, ma in pochi giorni, tra la puzza di bruciato e di carogna, hanno cominciato a ricostruire le loro case. Hanno trovato altre lamiere, altri assi di legno, chiodi e martelli. E sono ritornati.
Vengono da Livorno, arrivano dalle Marche, scendono dalla provincia di Torino, dal Lazio, da Udine come dal Veneto. C’è un’Italia che ogni anno si ritrova in un luogo indefinito, non segnato da alcuna cartina geografica, tra i territori dei comuni di Campobello di Mazara e Castelvetrano, nella Sicilia sud occidentale.
È l’Italia dei lavoratori stagionali, che percorrono, in una sorta di perenne transumanza, la dorsale del paese, seguendo il calendario antico del raccolto: prima il pomodoro in Campania, poi la vite e l’olio in Sicilia, poi si andrà in Calabria per le arance e poi si tornerà al nord per l’inverno. Hanno tutti origini lontane, Mali, Gambia, Nigeria, Sudan, ma è un errore pensarli stranieri.
Molti di loro sono in Italia anche da dieci, vent’anni, hanno famiglia e vanno dove c’è lavoro. Non vogliono essere fotografati, né ripresi, perché ai figli non dicono tutto: papà è fuori per lavoro, ma quale sia lavoro, in che condizioni disumane sia svolto, ecco, questo è meglio non saperlo.
Cementificio abbandonato
Perché non c’è dignità in questo luogo che loro chiamano casa e dove in alcune stagioni erano stipati anche in 1.200. Una baraccopoli nella pancia di metallo ed eternit di un cementificio abbandonato. Lì tre lamiere, un telo di plastica e qualche asse di legno, sono il concetto di casa, dentro ci dormono in tre, quattro. Non hanno acqua, non hanno luce.
Raccolgono l’oliva del Belice, la Nocellara, una delle varietà più pregiate, dalla quale si ottiene un olio che poi si trova nei ristoranti stellati e nella tavole dei vip. L’olivo è elemento essenziale del paesaggio di Castelvetrano, ogni famiglia ha il suo uliveto, fa la sua raccolta, produce il suo olio. Non è un caso se la mafia, che qui cerca da sempre di controllare il mercato, come primo segnale intimidatorio compie il gesto ritenuto più crudele: tagliare gli alberi di olivo.
E qualche giorno fa il comparto dell’olivicoltura di Castelvetrano, con 10mila ettari di estensione, e una media di 350mila quintali di olive raccolte l’anno, ha vissuto il suo quarto d’ora di celebrità. La regina degli influencer, Chiara Ferragni, ha postato una foto di un aperitivo in terrazza ringraziando un suo sponsor che le ha fatto scoprire “le olive dolci di Castelvetrano”.
Quasi in contemporanea, nella notte agitata della baraccopoli del Cementificio Selinunte, tra il 29 e il 30 Settembre, un giovane lavoratore cercava di capire come mai non funzionasse il motore a gas che alimenta la dinamo che dà luce al campo. Nel buio, utilizzava per farsi luce un accendino. Ha causato un’esplosione e un incendio che in poche ore ha bruciato tutte le baracche. Così è morto Omar, 30 anni, originario della Guinea Bissau. Solo per un caso non è successa una strage: quella notte al campo non erano in tanti, solo trecento, molti lavoratori, infatti, dovevano ancora raggiungere la Sicilia.
Hanno ritrovato il giovane la mattina dopo. Il corpo parzialmente carbonizzato, disteso nel suo materasso di fortuna. Nel 2013, un’altra vittima, in un incendio analogo, Ousmane.
L’incendio ha bruciato tutto: gli alloggi, gli scooter, le carcasse delle auto, le pecore di Will, che viene da Roma e qui cucina per tutti, la sera, nel suo ristorante dove si mangia una cacio e pepe da applausi. E il “negozio” di Abdou, che vende cuffie e batterie portatili per gli smartphone. Non ha bruciato solo le colline maleodoranti di rifiuti che circondano il campo, quasi a volerlo separare dal resto del mondo.
Come nel 2013, dopo la morte di Ousmane (“Mai più ghetti” fu l’impegno preso dalle istituzioni) anche in questo caso è stata la volta delle riunioni in prefettura, dei tavoli tecnici e delle conferenze di servizio, fino alla decisione: trasferire i lavoratori in due aree accanto, due aziende confiscate alla mafia e oggi, come accade troppo spesso per i beni passati in mano dalla criminalità allo stato, abbandonate. Si tratta di un un oleificio, Fontane d’oro, e di e un’ex concessionaria Mocar. Lì la Croce rossa e la Protezione civile offrono tende, docce, bagni, fanno anche da mangiare.
Ma i lavoratori hanno rifiutato. Si sentono controllati, dicono. Vogliono stare a casa.
Una rete di associazioni
E così in pochi giorni, tra la puzza di bruciato e di carogna, hanno cominciato a ricostruire le loro case. Hanno trovato altre lamiere, altri assi di legno, chiodi e martelli. E sono ritornati. «Qui stiamo meglio – raccontano alcuni ragazzi del Senegal – perché è un posto nostro». Stanno piantando pali, fissando dei cartoni spessi su assi di legno, per mettere su una baracca un po’ più larga. «È il luogo dove ci ritroviamo la sera - aggiungono - e guardiamo la tv». I migranti della baraccopoli hanno fatto prima della burocrazia: in pochi giorni il loro villaggio sgangherato era di nuovo in piedi, il primo carico di moduli abitativi inviati dal governo è arrivato molto dopo. In campo anche i volontari.
C’è Alessia Maso dell’associazione Re-agire, c’è suor Luisa Bonfante, che viene da uno dei quartieri più difficili di Castelvetrano, il Belvedere, «eppure dopo l’incendio, in molti hanno donato indumenti, scarpe e coperte», dice. «Coperte che non servono per i letti, ma per le pareti, per assorbire l’umidità fredda della notte». C’è anche Leo Narciso di Libera, che qui viene tutto l’anno «perché quando gli altri partono, c’è comunque un nucleo di persone che resta, saranno una sessantina, e lavorano nei campi». Ci sono altre sigle, e, come sempre accade, gelosie striscianti e veti incrociati.
Il caporalato cambia
Con l’incendio sono bruciati non solo le case, e la poca roba di ognuno, ma anche i documenti. Come si fa a lavorare regolarmente, senza? Ti rispondono che poco cambia, perché loro vivono di contratti fittizi, perché con le leggi cambia anche il caporalato, si aggiorna. E funziona che solitamente il lunedì vengono assunti, il venerdì vengono pagati, ma vengono dichiarati molti meno giorni degli effettivi. «Lavori cinque giorni e il padrone ne dichiara uno», così da un lato evita i controlli, perché può dimostrare un contratto, e dall’altro lato risparmia in contributi e seccature. Ma per i migranti è un guaio. A perderci sono sempre loro. Con contratti così poveri non possono dimostrare di essere autosufficienti, e quindi niente permesso di soggiorno. Diventano tutti clandestini.
Questo ti raccontano mentre chiedono di avere più acqua. La portano il venerdì dal comune di Castelvetrano, che la versa in alcune cisterne di plastica (anche quelle bruciate nell’incendio) donate da alcune associazioni. Il lunedì è già finita. Qualcun altro, invece, è andato in giro a cercare un altro generatore di corrente alimentato a benzina. Lo ha trovato. Lui e i suoi amici esultano. D’altronde sono italiani, conoscono bene l’arte di arrangiarsi.
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