Ha fatto di necessità virtù. È così che l’olimpismo ha creato la suggestione perfetta, trasformando un’esigenza in un punto di forza. Lo sport ha bisogno di equità per esistere: senza regole universalmente riconosciute, applicate e rispettate che mettano gli atleti nelle stesse condizioni, le prestazioni perderebbero di credibilità e l’agonismo il suo senso.

Allo stesso tempo è proprio l’equità necessaria alla sua esistenza a conferirgli il potenziale per essere uno strumento di crescita personale e progresso sociale.

È questa qualità o meglio, la tensione a concretizzarla, a conferire al sistema sportivo il fascino unico del mondo ideale, giusto, meritocratico e a renderlo ispirante e attraente per milioni di persone.

Ma lo sport non è un mondo e nemmeno un universo: è piuttosto un multiverso tempestato di questioni scientifiche, filosofiche, etiche. E alle cui risposte o presunte tali, si aprono nuove bolle di universo con altre galassie di interrogativi.

Pur tra incoerenze e scivoloni va riconosciuto lo sforzo positivo e proattivo del Ciov(Comitato Olimpico Internazionale) che negli ultimi decenni ha cercato di colmare l’abisso tra l’equità professata e realizzata, tra teoria e pratica.

Ha affrontato sfide nate da casi individuali e collettivi, personali e sociali su aspetti economici, biologici, di genere. Lo ha fatto nell’unico modo che garantisca la sopravvivenza del sistema ovvero stabilendo regole, imprescindibili per la sua esistenza ma attrezzandosi con comitati scientifici e tecnici necessari per rispondere reattivamente alla necessità di cambiarle: sguardo lontano e pugno fermo.

Il significato del prefisso 

Non si pensi che il prefisso “para” stia per paraplegico o paralitico, niente affatto sta proprio per parallelo. Il movimento paralimpico è un mondo parallelo del sistema sport.

Dall’iniziativa nata faticosamente nel dopoguerra, per opera del neurochirurgo tedesco Ludwig Guttman (col fine di stimolare i reduci con lesioni spinali o amputati affinché tornassero ad una vita il più possibile serena attraverso l’attività sportiva) tutto è cambiato, in meglio.

Da un nugolo di pionieri, circa 400 atleti in rappresentanza di 23 paesi, che nel 1960 disputarono a Roma la manifestazione antesignana degli attuali Giochi paralimpici, il movimento è cresciuto tanto: ora a Parigi sono attesi 4400 atleti da 184 paesi e sono 549 gli eventi nelle 22 discipline in programma. Gli italiani parteciperanno con la squadra più numerosa di sempre (141 atleti, di cui 70 donne), coprendo gran parte degli sport in programma (17 su 22).

Il presidente del Cip (Comitato Paralimpico Italiano), Luca Pancalli si aspetta grandi risultati. A Tokyo fu un trionfo con 40 podi e il nono posto nel medagliere. Peccato che l’entusiasmo si spense soffocato dalle polemiche per l’ammontare dei premi in denaro riservati ai medagliati paralimpici, quantificabili in meno della metà rispetto ai colleghi medagliati olimpici.

Ci fu una grande sollevamento dell’opinione pubblica trainata da migliaia di firme raccolte da una petizione lanciata da Assist (associazione nazionale atlete) e il premio venne corretto al 70 per cento dell’equivalente olimpico. La risposta alla parità mancata fu che ci sono altri problemi a cui dare la precedenza, tipo l’accesso alle protesi, come se una cosa dovesse escludere l’altra. Eh, quante facce ha l’equità!

Il tema dell’equità 

Il movimento paralimpico partito quasi in sordina (come fosse una gentile concessione dello sport quello “vero”) è arrivato invece a contendergli il ruolo da protagonista. Per il contenuto spettacolare e il portato emotivo delle prestazioni senz’altro ma prima di tutto per gli stimoli ad una riflessione più ampia e profonda. L’eterna tensione alla pratica dell’equità che per quasi un secolo (dalla nascita dello sport moderno) ha gravitato attorno alle opportunità declinate sul genere e sulle risorse, ha dovuto affrontare il concetto di vantaggio lecito e illecito in modo nuovo.

E per la prima volta anche all’interno della categoria maschile, grazie a criticità che il parallelo universo paralimpico ha messo a fuoco. Quando il sudafricano Oscar Pistorius corse i 400 in tempi da finale olimpica mandò in crisi il sistema.

Era il primo uomo, senza gambe, a correre per una finale a cinque cerchi. Era giusto che gareggiasse nelle categorie dello sport olimpico piuttosto che paralimipico? Quanto vantaggio gli davano le protesi?

La domanda controversa si ripropose in maniera più incisiva con l’avvento del saltatore in lungo tedesco Markus Rehm, il primo atleta amputato monolaterale, capace di vincere gare open.

Il suo record è di 8 metri e 62 centimetri, misura che non lo qualifica semplicemente come atleta competitivo ma come uno dei migliori anche tra gli atleti olimpici.

Su questi risultati e agevolato dal fatto che gli atleti in questione praticassero discipline misurabili, il tema del vantaggio offerto dalle protesi restava sotto i riflettori e nei laboratori alla ricerca continua di una risposta oggettiva, trasparente, dimostrabile e perciò equa. E oscurava completamente quello dello svantaggio dei traumi e dei dolori di gestire una protesi per esprimersi in prestazioni massimali.

Per non sbagliare la decisione presa fu quella di mantenere le categorie separate. È però interessante ricordare le scelte fatte dai massimi organismi sportivi internazionali e di farlo ora con le riflessioni seguite al caso di Imane Khelif, la boxeur algerina accusata di non essere abbastanza donna, ancora ben impresse nella memoria.

L’equità nello sport è al tempo stesso un mezzo e un fine. Nessuna decisione verrebbe mai avallata se rischiasse di compromettere la credibilità del sistema equo su cui lo sport si deve reggere.

Checché ne dicano, nel male, quelli che fanno biologia “a vista” come accaduto per la malcapitata pugile nordafricana o, nel bene, coloro che vorrebbero che i due mondi paralleli dello sport per abili e disabili convergessero. In entrambi gli esempi le autorità sportive hanno agito nel rispetto delle regole vigenti e aggiornate allo stato attuale delle conoscenze di riferimento.

Contraddizioni solo apparenti 

Il successo dello sport paralimpico si annida in gran parte nella potenza inclusiva del messaggio che esprime. Tuttavia è proprio attraverso l’applicazione di regole rigorose e la frammentazione in numerose categorie atte a garantire equità, giustizia e rispetto che l’inclusione raggiunge il suo apice. Apparentemente è una contraddizione, in realtà è un fine lavoro per unire attraverso riferimenti condivisi; sono separazioni motivate da un attento bilancio tra vantaggi e svantaggi volte a dare a ciascuno il suo posto in base alle proprie caratteristiche.

Ciò che resta da capire è ora chi segnerà la via. Se il concetto di vantaggio biologico, quello lecito, venisse applicato in maniera omogenea allo sport olimpico, come in fondo hanno fatto da sempre le discipline di combattimento (con le precise e molteplici categorie di peso) forse in futuro avremo una pallacanestro per i bassi di statura, il nuoto per chi ha più del numero 47 di piede o un’atletica con testosterone extralarge.

Uno scenario da far girare la testa e in cui non perdere mai di vista che, prima e più dello spettacolo o del pubblico, nel multiverso sportivo, a crescere dovrebbe essere la felicità interna lorda.

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