Re Felipe VI ha ratificato la riforma che mette fine a una lunga rincorsa alla dignità partita nel 1978 con la Magna Carta: i disminuidos (“minorati") sono ora personas con discapacidad, persone con disabilità. La revisione non è solo formale: parla di uguaglianza, garanzie. L’Italia ha un progetto analogo
Perdono è una parola rara nel dibattito pubblico. Se a usarla è una personalità politica come Pedro Sánchez, il messaggio è potente e carico di umanità. Ha scelto di farlo dopo l’approvazione dell’emendamento all’articolo 49 che tratta il tema della disabilità nella Costituzione spagnola. Avrebbe potuto limitarsi a formali scuse. Invece il suo chiedere perdono ha voluto sottolineare la consapevolezza del danno e del dolore arrecati da un cambiamento necessario ma troppo atteso: ben 46 anni.
Cosa è successo in Spagna
Il 15 febbraio il Re Felipe VI ha ratificato con cerimonia solenne la riforma che mette fine a una lunga rincorsa alla dignità partita nel lontano 1978, data dell’entrata in vigore della Magna Carta. Tanto ci è voluto perché i disminuidos (traducibile in “minorati”) diventassero personas con discapacidad, persone con disabilità. La revisione dell’articolo non è solo formale: ha eliminato il concetto di handicap, parla di libertà, uguaglianza, autonomia e, soprattutto, di garanzie.
In Italia è stato avviato un progetto analogo (anche nel nostro articolo 38 della Costituzione si parla di “minorati”) ma attraverso un percorso completamente diverso: un decreto legge approvato nel 2023 e che dovrebbe entrare in vigore, chissà perché, nel 2025.
Lo sport, anche in questo caso, è arrivato molto prima là dove le istituzioni ancora arrancano. «Ci chiamavano paralitici, oggi siamo paralimpici! L’introduzione del lemma “paralimpico” nella Treccani per definire qualsiasi persona con disabilità pratichi una disciplina sportiva, ha evidenziato la trasformazione culturale in atto nel nostro Paese, grazie allo sport, ai suoi esempi positivi, alle sue storie di rinascita».
Le parole e le prestazioni
La Treccani non è la Costituzione ma queste parole di Luca Pancalli, presidente del CIP (Comitato italiano paralimpico) sentite più volte nei suoi interventi pubblici (riportate anche nel primo, interessante report dell’osservatorio permanente sullo sport) esprimono perfettamente il ruolo che l’attività sportiva ha avuto nello sgretolare lo stigma della disabilità, riconducendola a una condizione in cui ognuno può incorrere. Se le imprese sportive ispirano alcuni, le prestazioni paralimpiche infondono coraggio a tutti: sono come un sano ceffone che scuote nel profondo, che distoglie lo sguardo dalle incapacità e lo volge verso le risorse.
Nello sport l’attenzione è focalizzata sulla performance dell’atleta capace di fare la storia. Nello sport paralimpico è la storia dell’atleta che fa la performance. In questo cambio di prospettiva lo sport paralimpico ha un effetto prorompente nel normalizzare la diversità, esaltare l’originalità di ciascuno ed aprire nuovi scenari di discussione sui prìncipi che sostengono la costruzione delle categorie: dentro e fuori le competizioni sportive.
Le categorie sono una prerogativa della conoscenza, strumenti per comprendere e comunicare: sono imprescindibili anche nell’agonismo, perché gli atleti devono avere le stesse possibilità di ambire al successo, affinché il confronto sia significativo e corretto.
Sono necessarie ma rappresentano, inevitabilmente, una semplificazione della realtà e ora, che la società fluida scivola tra le maglie strette delle categorie, la complessità dello sport ha bisogno di nuovi riferimenti. Nella ricerca di soluzioni a sfide sempre più complicate, le risposte tecniche e pratiche che lo sport dà a sé stesso hanno importanti ripercussioni sociali, etiche, culturali.
La discussione sulle protesi
In principio fu Pistorius Oscar, quattrocentista sudafricano capace di tempi da finale olimpica nei 400 metri dell’atletica leggera, nonostante corresse con due protesi per l’amputazione subìta sotto il ginocchio in entrambi gli arti inferiori: fu lui il primo a mettere in crisi i criteri. Le sue prestazioni costrinsero la scienza e la filosofia dello sport a interrogarsi sugli effetti della tecnologia assistiva (le protesi di ultima generazione) in termini di vantaggio o svantaggio ai fini della prestazione.
Poi venne il tedesco Markus Rehm, il primo atleta amputato monolaterale, capace di vincere gare open. Nella specialità del salto in lungo è arrivato a 8 metri e 62 centimetri, misura che non lo qualifica semplicemente come atleta competitivo ma come uno dei migliori, se non addirittura “il migliore” in assoluto. Si accesero molte polemiche e partirono tanti studi da parte di commissioni dedicate.
L’esito fu che un eventuale vantaggio dato dalla protesi al momento dello stacco veniva compensato da una minore vantaggio nella fase di rincorsa. Ma non bastò questa valutazione per consentirgli la partecipazione alle Olimpiadi, nemmeno associandola all’evidenza del dolore e degli infortuni che l’uso di un arto artificiale provoca.
Così Markus fu costretto a continuare a gareggiare nello sport paralimpico. Eppure lui avrebbe voluto semplicemente potersi confrontare coi migliori, lo avrebbe fatto anche “fuori classifica” pur di regalare allo sport paralimpico maggiore visibilità e una nuova frontiera: quella di un atleta paralimpico capace di vincere le Olimpiadi e permettere ai due mondi di diventare uno. Un’eventualità non contemplata fino a quel momento ma che, con lui, sarebbe potuta diventare realtà.
Dirigenti ed esperti tecnico-scientifici, incapaci di gestire la situazione, decisero che la cosa più giusta fosse mantenere le due categorie (olimpica e paralimpica) separate. La dicotomia oggi resta ma la gerarchia di merito su cui si era sempre basata si inverte; per la prima volta, prende forma il pensiero che un atleta con disabilità possa diventare un atleta con super-abilità. Alla faccia dei minorati!
Il concetto del super-abile
Certo lo sport paralimpico non è un territorio frequentato solo da amputati. La dettagliata classificazione delle disabilità è un’evidenza della molteplicità di problematiche diversissime e perciò estremamente diffuse, talvolta invisibili. Una varietà che sottolinea come, per quanto ci si possa impegnare nel trovare requisiti su cui impostare classificazioni e categorie, l’unico denominatore comune è l’originalità di ogni essere umano.
In questa pluralità il concetto di super-abile apre a infiniti, possibili scenari, talvolta romanzati in alcuni film di successo (Forrest Gump, Rain Man, Si può fare, La teoria del tutto) che rappresentano perfettamente la necessità di guardare al limite con un’altra prospettiva.
La prospettiva disegnata dalla formidabile traiettoria dei salti di Rehm, sembra combaciare perfettamente con la parabola espressa nel celebre insegnamento attribuito a Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci».
Scandito in queste tappe, lo sviluppo del concetto di super-abile può rappresentare una grande risorsa per educare al limite. Il fine non è banalizzarlo nella retorica del tutto è possibile a tutti ma valorizzarlo nella sua ambivalenza di confine da rispettare o soglia da varcare, a seconda delle ambizioni e delle potenzialità di ciascuno.
L’obiettivo non è diventare campioni ma scoprire e realizzare sé stessi e comprendere che le categorie non sono compartimenti stagni che imprigionano ma riferimenti per orientarci. E possono servire anche, semplicemente, a spronarci per dimostrare che sono sbagliate.
La psicologia ci insegna che la percezione di efficacia è uno dei presupposti per la soddisfazione e una vita felice. Questo giudizio che ciascuno di noi si dà circa la propria capacità di riuscire a portare a termine determinati compiti passa anche attraverso le parole. E tra parole come scusa e perdono, minorati e persone con disabilità, indifferenza e solidarietà c’è tutta la distanza segnata dalla lunga parabola della superabilità.
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