Oggi il maiale è diventato, suo malgrado, il simbolo della crisi climatica e della insostenibilità ambientale, sociale e economica dei sistemi di produzione del cibo. Di un sistema cioè basato sull’iperproduzione e sulla commercializzazione di carne a prezzi stracciati
È il simbolo dell’abbondanza per eccellenza. “Del maiale non si butta via niente”. Recita così un antico adagio della tradizione contadina, che del maiale utilizzava e utilizza tuttora ogni sua parte. Possedere un maiale ha rappresentato (e in qualche raro caso rappresenta tuttora) una ricchezza inestimabile, perché l’uso delle sue carni - essiccate, salate, stagionate – ha garantito il sostentamento di intere famiglie per molti mesi. Eppure oltre all’idea di prosperità alimentare, al maiale è associato anche l’universo del grottesco, della sporcizia o indecenza, anche morale.
È questo lo stereotipo che si è radicato sul maiale - in realtà un animale pulitissimo, dalle capacità relazionali sorprendenti e dotato di una vivacissima intelligenza - da quando siamo soliti vederlo rinchiuso in spazi angusti, che impediscono anche il minimo movimento, all’interno di allevamenti intensivi. Oggi il maiale è infatti diventato, suo malgrado, uno dei simboli della crisi climatica e della insostenibilità ambientale, sociale e economica dei sistemi di produzione del cibo. Di un sistema cioè basato sull’iperproduzione ad ogni costo e sulla commercializzazione di carne a prezzi stracciati. Per far fronte alla domanda crescente e ridurre il consumo di suolo, alcuni paesi come la Cina, il più grande consumatore di carne suina al mondo, hanno anche dato una forma verticale agli allevamenti, ma il loro impatto energetico resta spaventoso. Solo l’inflazione e il dilagare della peste suina ne hanno ridotto la domanda. Lo scorso anno l’Italia ha macellato dieci milioni di suini, quasi tutti provenienti da strutture intensive.
«Qui ci sono più maiali che esseri umani» è la frase che ci siamo sentiti ripetere più spesso, quando con Terra!, nei mesi scorsi, abbiamo attraversato le province di Brescia, Mantova e Cremona, per indagare l’impatto sociale della filiera dei maiali che abbiamo raccontato nel report “Cibo e sfruttamento. Made in Lombardia”. Con Essere Animali, siamo entrati in questi luoghi infernali, nella regione che ospita il 50 per cento dei capi suini presenti su tutto il suolo nazionale, la Lombardia. Abbiamo visto centinaia di maiali grugnire all’unisono, stipati in recinti minuscoli, circondati da ratti e sovrastati da ragnatele. Abbiamo indagato la filiera di quello che è divenuto ormai un simbolo del made in Italy, raccontando come, con l’inflazione in corso, gli aumenti dei prezzi a scaffale non siano proporzionali ai costi di produzione.
Un effetto delle politiche di commercializzazione troppo aggressive, messe in campo da discount e insegne della distribuzione, che spingono un intero settore a vendere la carne praticamente sottocosto. Il prodotto anche di una filiera estremamente parcellizzata, composta da aziende mangimistiche, aziende di allevamento e imprese di trasformazione, in cui, in periodi di crisi, il costo sociale è sempre il più sacrificabile. Perché, come raccontiamo da tempo, per quei prezzi così bassi che troviamo nelle corsie dei supermercati qualcuno dovrà pur pagare. E nelle aziende del comparto, quel qualcuno è quasi sempre un lavoratore straniero. Indiani, ghanesi, cinesi e cittadini dell’est Europa valgono infatti il 50 per cento della forza lavoro impiegata.
Come in altri segmenti dell’agroalimentare, nel settore suinicolo il reclutamento è dominato da forme di outsourcing, cioè di esternalizzazione. I lavoratori dei macelli lombardi sono selezionati in buona parte da cooperative, che applicano contratti nazionali come quello della Logistica o delle Pulizie e Multiservizi, con buste paga di 400-500 euro inferiori rispetto al contratto di riferimento dell’industria alimentare. Operai più sacrificabili e facilmente sostituibili, spesso divisi dai lavoratori diretti dello stesso stabilimento solo da linee di demarcazione tracciate sul pavimento. Ma rispetto a questi ultimi, privi di adeguate tutele in caso di malattia e di cali produttivi. Un’industria della carne vorace e inarrestabile, di cui spesso si dimenticano gli elevati costi sociali e ambientali, che oggi rendono impercettibile la differenza tra la sofferenza dell’animale e la fatica dell’uomo che vi lavora.
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