Lo chef tre stelle Michelin racconta di come ha imparato da autodidatta: «All’inizio mi limitavo a riprodurre le ricette di mio padre, sbagliando». «Non avendo fatto una scuola, per rispondere a certe domande dovevo studiare: mi ha dato la libertà di scrivere le mie regole»
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
I ristoranti sono luoghi in cui la mescolanza, prima degli ingredienti e di variabili culinarie, nasce dai percorsi delle persone che li abitano. Magari simili, mai lineari o prestabiliti, gli approcci alla professione si snodano in infinite combinazioni tra formazioni, apprendistati, ore sui fornelli, tentativi riusciti o andati male.
È in questa natura caotica che la cucina cerca di disegnare un proprio equilibrio, dove mano e immaginazione, nell’intima connessione che ne dà Richard Sennet, sono in grado di tessere da sole il proprio cammino. Più che un mito, l’autodidattica è una pratica mai quieta che può farsi carica trasformativa.
Niko Romito, chef tre stelle Michelin per il ristorante Reale aperto con la sorella Cristiana e una serie di progetti tra cui la Scuola di Alta formazione e Specializzazione professionale, è un grande esempio di come ricerca e apprendimento personali possano trasformare la materia.
Tutto inizia nel ‘99 a Rivisondoli, dove Romito torna per gestire il ristorante di famiglia. Di questo momento iniziatore, quando ancora non conosceva nulla, Romito ne parla come di un richiamo istintivo, destinato a cambiare il suo percorso: «All’inizio mi limitavo a riprodurre le ricette di mio padre, con errori e superficialità, perché non conoscevo questo lavoro. C'era uno spirito positivo, la voglia di fare le cose fatte bene e di crescere», racconta.
«Poi ho iniziato a chiedermi il perché delle cose. Perché cuocendo una patata si arriva a una struttura morbida? Perché una cipolla che, in natura, è acida diventa dolce? Ho iniziato a leggere moltissimo, dai libri di letteratura gastronomica a quelli di altri cuochi e, piano piano, approfondivo chimica e fisica. Ma l'approfondimento, oltre alla lettura, l’ho fatto con la pratica. Stavo ore e ore in cucina tutti i giorni facendo errori e rimettendo tutto in discussione. È stato un processo bellissimo ma, anche, di grandi sacrifici che non ho vissuto veramente come tali perché amo stare in cucina».
Creare un linguaggio a partire dalla materia
Determinanti nelle preparazioni sono, a prima occhiata, le tecniche.
Romito le approfondisce all’inizio ma diventa chiaro che a contare, ancor di più, sono le idee che si condensano nell’esecuzione finale: il piatto come punto di arrivo di un mestiere o di una ricerca che sono sempre, a qualsiasi livello, la cristallizzazione di un linguaggio personale: «Quando ho iniziato ad avere maggiore dimestichezza e a conoscere meglio le basi della cucina ho cominciato a scrivere un linguaggio che mi rappresentasse», ricorda Romito, «Sono stati più gli altri, in un certo senso, a farmi capire che la mia cucina stava virando su una direzione più personale. A me sembrava normale fare quel tipo di cucina perché rifletteva molto la mia partenza e, quindi, una cucina domestica e di montagna, basata su sapori poveri che, anche visivamente, erano concepiti per non apparire ma per concentrare tutte le riflessioni nel morso. Ho sempre creduto che la creatività e la ricerca fossero dentro al prodotto e non all'esterno e che, solo mangiando, si potesse capire ciò che veniva fatto».
Parliamo di cucina e, quindi, di materie prime che comunicano a chi le vuole ascoltare. La voce di questo linguaggio è il gusto, una forma che necessita la stessa educazione delle mani.
L’autoeducazione di Romito sembra esprimersi anche in questo come apprendimento libero che, dall’esterno vira verso l’interno, in direzione di una conoscenza sempre più profonda. Un processo che stratifica materia su materia come nel caso della Melanzana glassata, di pensiero su pensiero nell’approdo a una propria espressione: «Assaggiare una varietà e una quantità di ingredienti diversi ti crea un gusto e ti fa scoprire che le idee si possono modificare. Così si iniziano a trasferire nei piatti le sensazioni più importanti come la propria personalità. Oggi la mia cucina trasmette il mio modo di essere e pensare, oltre al gusto. Cerco un linguaggio chiaro perché voglio che sia diretta, trasparente e onesta. Per arrivarci c’è voluto tempo e, ogni volta che chiudevo un piatto, dopo mesi veniva rimesso in discussione in una sorta di ricerca costante. Per questo credo che, da un lato, sia importante la conoscenza ma, dall'altro, sia fondamentale la curiosità, la voglia di mettersi in discussione e alzare sempre più l’asticella».
Trasferire il conosciuto
Si può dire che qualsiasi percorso culinario arrivi a un cambiamento quando, indipendentemente dalla formazione, si ritrova a percorrere una strada nuova. Qui si apre una modalità inedita nell’apprendimento che, da accumulatore di conoscenze, si fa di precisione.
In Romito è rappresentato dalla capacità della materia nel farsi comunicatrice – ed educatrice – attraverso il filtro dell’alta cucina: «Il mio scopo è portare in evidenza il potenziale di un ingrediente che tutti conosciamo ma che, prima, non era stato letto. È come scartavetrare una materia prima, andare fino in fondo e riuscire a estrarre qualcosa che può essere nascosto ma, in realtà, si trova già al suo interno. Ho lavorato sempre sul limite ma, soprattutto, per una cucina che parlasse due linguaggi diversi, perché un neofita potesse apprezzare il piatto, perché un cliente più tecnico potesse scorgerne il lavoro e la visione. Quando un messaggio vuole essere dirompente in cucina, deve accompagnarsi all'emozione del gusto», prosegue Romito.
«Per questo, quando ho fatto il menù vegetale, non è stato per provocare ma perché sapevo che in quel menù c’erano tanti contenuti da raccontare, portando riflessioni nuove nel nostro mondo. La bellezza dell'alta cucina è che, quando si lavora con ricerca, visione e contenuti poi si influenzano altri livelli di ristorazione».
Il passaggio finale è la restituzione del sapere che Romito, il trasferimento del Ristorante Reale a Casadonna, ha concretizzato in un’Accademia.
L’autodidatta si fa insegnante ancora una volta in maniera inedita, in una ricerca che non si accontenta mai: «Ho creato la scuola per avere uno spazio maggiore di ricerca e perché mi piace confrontarmi e trasmettere il mio pensiero verso altri che, poi, diventano parte stessa del mio percorso. Mi piace molto e non è una forma di egocentrismo ma più un dare e avere perché, per crescere, ho sempre scambiato opinioni», conclude Romito, «Non avendo fatto una scuola, per rispondere a determinate domande dovevo studiare e quello sicuramente mi ha dato la libertà di scrivere le mie regole. Per questo la formazione è qualcosa che costruiamo con gli studenti, non imponiamo assiomi proprio per il mio modo di essere e, questo, molte volte, mi permette di avere nuove idee che nascono da questi ragionamenti insieme. Il cuoco oggi ha la grande responsabilità sociale di formare, educare e aprire strade nuove anche in virtù di una serie di temi delicati come la sostenibilità. Quando tanti cuochi inizieranno a servire più vegetali, ad esempio, il consumo domestico delle carni e pesci tenderà a diminuire naturalmente».
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