I “graditi” avanzano ai vertici del dipartimento di gran carriera, alcuni sindacati pendono dalle sue labbra, anche in carcere tra i comandanti c’è la corsa a chiedergli udienza perché lui dalla tolda di comando ascolta e decide. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha impiegato due anni per occupare i gangli decisivi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e prendersi definitivamente il carcere, fieramente rivendicato come il suo regno, in nome del padre.

Sandro Delmastro Delle Vedove, infatti, è stato senatore di An, nostalgico dei tempi andati e del saluto romano, avvocato e strenuo difensore degli agenti. Una passione di famiglia, insomma. Il meloniano doc, già avvocato della premier, ha impiegato 24 mesi per plasmare a sua immagine e somiglianza il Dap, quel dipartimento che si occupa di carceri, detenuti e polizia penitenziaria.

A dire addio in questi giorni è stato proprio il capo del Dap, Giovanni Russo, magistrato con un passato alla Direzione nazionale antimafia, fratello del mite Paolo, già deputato di Forza Italia nei tempi d’oro del berlusconismo. Giovanni Russo ora dovrebbe andare a fare il consigliere giuridico di Antonio Tajani, capo dei forzisti e ministro degli Esteri.

Il fantasma di Russo

Russo al ministero era diventato un fantasma, assente negli appuntamenti decisivi, in ritardo sulle promesse fatte e silente quando sulle carceri italiane si allungava l’ombra delle violenze con arresti e retate. Le sue dimissioni hanno sancito il suo fallimento e la vittoria di Delmastro, ormai vero padrone di quel dicastero.

Il rapporto tra Russo e il meloniano non è mai stato idilliaco a partire dal pasticcio sulle visite e le frequentazioni dell’anarchico, Alfredo Cospito, ristretto al 41 bis, e in particolare sul documento «a limitata divulgazione».

Un documento che ha inguaiato, mandandolo a processo, il sottosegretario che, nei giorni scorsi, in aula ha chiarito chi comanda dalle parti di via Arenula: «Io non avevo alcuna urgenza, era Giovanni Russo, capo del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si mosse con urgenza per fare ottenere a me, sottosegretario, quanto richiesto. E mi sembra normale: Russo prende 250mila euro all’anno, come minimo se gli chiedo una cosa da dieci giorni deve farmela ottenere».

Pochi giorni dopo l’udienza, Russo, rassicurato sul suo destino, ha fatto la valigia e lasciato l’incarico. Domani, quattro mesi fa, aveva previsto le dimissioni e indicato in Lina Di Domenico il futuro del Dap. Proprio quest’ultima sarà testimone nella prossima udienza del processo che vede imputato il sottosegretario per rivelazione di segreto d’ufficio. Non c’è solo lei in rampa di lancio nel ministero, al Dap avanza anche un altro nome, quello di Augusto Zaccariello, promosso dirigente superiore, prima capo del Nic, poi capo del Gom, ora vicedirettore generale del personale e pronto a nuovi incarichi.

I fallimenti

Una squadra che gode di stima e considerazione nell’ambiente sindacale e tra gli agenti, apprezzata anche da Delmastro, il sottosegretario che ha superato indenne ogni tipo di bufera: dall’imputazione per il pasticcio Cospito, passando per lo sparo di Capodanno che ha coinvolto l’amico e fedelissimo, il deputato Emanuele Pozzolo, fino alle dichiarazioni improvvide sullo stato che si bea dell’aria che manca ai detenuti nella nuova auto della penitenziaria.

Avvicendamenti che servono anche a cancellare i fallimenti che le destre al governo hanno ereditato e peggiorato nella gestione delle carceri. I detenuti hanno superato quota 62mila a fronte di una capienza ufficiale di 51mila posti, cifra dalla quale bisogna sottrarne oltre 4mila non disponibili. C’è un altro dato che spiega il fallimento, il numero di suicidi in carcere sfiora i 90, cifra da paese incivile. Delmastro gongola mentre le carceri cadono a pezzi.

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