Fingersi remissivi e poi colpire. Fingersi pentiti per mantenere il controllo del clan, far implodere processi e sistema repressivo e vendicarsi. Una verità in mezzo a cumuli di bugie e il gioco è fatto, conservando uno strabiliante potere di ricatto nei confronti di chi conserva i soldi primigeni dell’economia mafiosa
E se fosse tutto un piano? Se la collaborazione fallita di Francesco Schiavone, conosciuto come Sandokan, fosse solo una puntata di una strategia mafiosa utilizzata dal clan dei Casalesi per sbarazzarsi, senza spargimenti di sangue, di nemici e avversari, di traditori e uomini di legge, utilizzando le stesse armi dello stato?
Fingersi remissivi e poi colpire. Fingersi pentiti per mantenere il controllo del clan, far implodere processi e sistema repressivo e vendicarsi. Una verità in mezzo a cumuli di bugie e il gioco è fatto, conservando uno strabiliante potere di ricatto nei confronti di chi conserva i soldi primigeni dell’economia mafiosa.
È Ivanhoe Schiavone, quarto figlio del boss, a spiegarlo durante una conversazione intercettata un paio di anni fa: «Io non giudico nemmeno mio fratello Nicola e non giudico nemmeno a Raffaele (figlio di Bidognetti, ndr) o qualche altro cristiano. Non perché è capitato ora nella famiglia mia. Conoscendo i retroscena di tutto quello che poi è successo, di come si sono evolute le cose, tutti i cristiani che hanno fatto asso pigliatutto, di tutte le cose che sono scomparse, di tutte le male azioni che uno ha subito, quello dopo dieci anni di galera ha fatto bene».
Gli indizi
Non sappiano se è solo una congettura, ma molti indizi sembrano confermarla. Partiamo dall’inizio, da un mese di aprile di dodici anni fa, quattro mesi dopo l’arresto di Michele Zagaria. In un hotel a mezza strada tra Caserta e il casello autostradale si riunisce un manipolo di imprenditori di Casapesenna, il paese del boss.
Si decide di fondare un’associazione e di ricorrere all’ombrello protettivo della Fai di Tano Grasso (che poi parteciperà anche a qualche incontro, per sfilarsi sei mesi dopo). A una condizione: nessuna denuncia dei fatti passati, solo una richiesta di protezione istituzionale per quelli a venire. Quegli imprenditori sono gli stessi che di lì a poco finiranno nelle varie inchieste sula rete di Michele Zagaria nelle grandi opere. E saranno quasi tutti condannati.
A marzo del 2014 inizia a collaborare Massimiliano Caterino, che di “Capastorta” era stato fedele fiancheggiatore (due mesi dopo è la volta di Antonio Iovine, che del cartello era stato per decenni uno dei capi). A luglio un singolare colpo di scena, un unicum nella storia dei processi di camorra. Durate un confronto in aula tra Caterino e uno degli imprenditori della lista, Bartolomeo Piccolo, Zagaria prende la parola e difende la versione del pentito: «Presidente, sembra una contraddizione che io do ragione al collaboratore. Devo farlo per un fatto di onestà». E racconta che mai e poi mai avrebbe fatto un’estorsione al suo paesano.
Massimiliano Caterino alla fine sarà assolto, così come lo stesso Zagaria. Del quale, a dire il vero, il pentito ha detto poco o nulla, così come degli affari di famiglia, degli interessi delle sorelle e dei fratelli, del ruolo dei nipoti, Nicola e Filippo Capaldo, eredi designati e ormai saldamente all’estero, alle Canarie e alle Baleari. Con i denari portati quando, come e da chi non è dato di sapere.
Pentimenti in blocco
Due anni dopo, mentre Francesco Schiavone dal carcere minaccia l’ormai ex amico Nicola Schiavone (l’uomo di Rfi), di «poter uscire pazzo», ecco che dalle carceri inizia a filtrare la voce, non verificabile, che Zagaria e l’intero clan dei Casalesi abbia ordinato agli affiliati di pentirsi in blocco. E in quel periodo “si buttano a pentiti” camorristi veri o presunti, di scarsissima o nulla affidabilità.
La Cassazione boccia le dichiarazioni del figlio di Schiavone in un procedimento di prevenzione: ha mentito nel maldestro tentativo di salvare la casa intestata alla moglie; la corte di Appello di Napoli fa la stessa cosa con Luigi Cassandra, ex assessore ai Lavori pubblici a Trentola Ducenta, uomo di Zagaria, che non voleva rinunciare al ristopub con annesse piscine, il “Night & Day”. Attilio Pellegrino, altro personaggio vicino a Zagaria, un anno dopo l’inizio della collaborazione (siamo nel 2015) lascia la località protetta, rientra nel suo paese (Villa di Briano), sequestra un ragazzino e spara a un dipendente della concessionaria di auto dei due cognati. Viene arrestato ma, chissà perché, riammesso nel programma.
L’ultimo della serie, nel 2019, è Francesco Zagaria (solo omonimo del boss) che si colloca sulla scena di innumerevoli fatti estorsivi, dice di essere stato testimone di patti scellerati e di nefandezze varie, racconti talvolta suggestivi ma talmente evanescenti da produrre la sua condanna per un omicidio e l’assoluzione di tutti coloro che aveva accusato. La sua famiglia ha rifiutato la protezione, i figli continuano a spendere somme considerevoli delle quali non si conosce l’origine.
Solo Antonio Iovine ha consegnato svariate proprietà immobiliari, in Campania e in Emilia-Romagna. Dagli altri non si è ottenuto neppure il più flebile indizio su commercialisti e broker che hanno trasferito i soldi in luoghi sicuri; neppure una traccia sulle madie dove viene fatto crescere l’altro lievito madre.
© Riproduzione riservata