Questa è una storia che ha una data d’inizio certa e una fine tutta da scoprire, un protagonista indubitabile e una selva di apparenti comprimari tra i quali, forse, si nascondono coprotagonisti sottovalutati.

È una storia di simboli mafiosi e di gestualità familiari, di lettere e di baci, di fughe in avanti e di imprevisti ripiegamenti. Questa è la storia di Francesco Schiavone, capo di un clan di camorra e di una famiglia naturale sempre obbediente anche nel dissenso: sette figli e una moglie, Giuseppina Nappa, che fa storia a sé, da quarantasei anni indiscussa padrona di una casa disgregata da arresti, lutti, condanne, confische, ma sempre in piedi. Immarcescibile.

La data d’inizio

Partiamo dalla data d’inizio, prequel del pentimento fallito del boss chiamato Sandokan. È il 15 gennaio del 2010, la prima sezione della Corte di cassazione rigetta tutti i ricorsi e dichiara irrevocabili ventiquattro condanne, tra le quali l’ergastolo ai capi del cartello dei Casalesi.

In capo al solo Francesco Schiavone, la responsabilità penale dell’omicidio (vero o supposto che sia) di Antonio Bardellino. Passaggio del testimone di fatto, pur se non unanimemente riconosciuto all’interno del gruppo criminale. Quella sera di quattordici anni fa si chiude un capitolo e si va verso una nuova stagione.

Schiavone prende penna e carta e, pur con tutte le cautele imposte dalla censura, scrive alla famiglia. «Sta per arrivare una valanga, andate tutti via». Il primogenito Nicola e Ivanhoe lo incontrano in sala colloqui, nel carcere di Opera, il 25 febbraio. Vogliono sapere, o almeno capire ciò che è possibile capire attraverso il vetro blindato, sotto l’occhio vigile di una telecamera.

E lui, il boss, spiega che non di un consiglio si tratta, ma di un ordine. Poi muove il braccio destro, gesticola, alza la mano e tre dita simulando una pistola. Uno dei figli impallidisce. Obbediscono e lasciano Casal di Principe. Dura pochissimo. Di lì a poco finiscono in carcere Nicola Schiavone (poi condannato all’ergastolo), il più piccolo Emanuele Libero, Carmine. Pure Giuseppina Nappa ha il suo da fare con la giustizia. Pure Ivanhoe finisce in un’inchiesta. Si salvano solo le due ragazze, Angela e Chiara.

Giuseppina Nappa

Qualche tempo dopo le annotazioni della polizia penitenziaria documentano la rabbia del boss per i soldi che il suo amico Nicola Schiavone, testa di ponte tra Casale e le Ferrovie, ha negato alla famiglia. Misero il regalo per il matrimonio della figlia, appena tremila euro: «Se esco pazzo (se mi pento, ndr) fa i conti con me». È il 2016, è arrabbiatissimo, e finisce per coinvolgere anche la figlia nei suoi affari e nei suoi regolamenti di conti. O, almeno, ci prova.

Dopo qualche tempo, a “uscire pazzo” è il figlio Nicola, l’unico a non avere alcuna prospettiva di scarcerazione, da anni all’ergastolo e al 41 bis. È lui a raccontare del parente, suo omonimo e compare di battesimo, che è «un po’ come Bisignani», faccendiere, massone, ammanigliatissimo con le Ferrovie dello stato (settore subappalti), uscito indenne dal processo Spartacus nonostante il peccato originale della Scen, impresa di cui era socio assieme a Schiavone-Sandokan.

«I soldi erano di mio padre», racconta il primogenito del boss. «È la terra arata da mio marito», conferma Giuseppina Nappa, che racconta a verbale senza però collaborare con la giustizia. È suo il geniale paragone tra le provviste di denaro ai soci occulti e il lievito madre, il lievito che non muore mai. È sempre lei a dare manforte alle spesso traballanti e lacunose rivelazioni del suo primogenito. Ma sempre tenendosi a distanza dallo stato, abilissima regista di chissà quali e quanti progetti.

Uno è trasparente: mettere al riparo la famiglia da ritorsioni violente o da altri arresti. Non sappiamo se abbia anche provveduto a preservare denaro o immobili intestati a terzi. Anche confiscati, ma sui quali ha conservato (lo ha raccontato il figlio a proposito dell’azienda agricola Ferrandella) una sorta di diritto d’uso.

È certo che la rilettura, a distanza di tempo, dei colloqui tra la donna e il marito offre più di uno spunto di riflessione proprio sulle entrate e sulle rendite. Anche quella dei colloqui più recenti tra i due potrebbe disvelare tracce di segreti che, nella foga del repentino pentimento, potrebbero essere sfuggiti. O volutamente sfuggiti, in un depistante (e mostruoso, direbbe Borges) gioco di specchi.

E il bacio negato tra padre ed Emanuele Libero? Ecco, sarebbe bello poter guardare con occhi profani, non dell’investigatore, quella scena da film. Ma è andata davvero così o l’ultimo atto della collaborazione fallita è, pure quello, una finzione?

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