C’è rabbia, c’è stanchezza, da parte dei movimenti femministi e delle associazioni che operano nel contrasto alla violenza. Rabbia nei confronti delle istituzioni, che invece di riconoscere la matrice culturale del fenomeno della violenza di genere puntano il dito altrove. E stanchezza di fronte ai numeri e ai dati dei femminicidi, che raccontano di ragazze sempre più giovani uccise dai propri coetanei. Come Sara Campanella e Ilaria Sula, entrambe studenti universitarie, 22enni, accoltellate da ragazzi della loro età.

Ma alla richiesta di misure urgenti da parte della politica, la risposta è sempre la stessa: è una cultura che non ci appartiene. Questa volta a dirlo è stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio: i femminicidi «si radicano probabilmente nell’assoluta mancanza non solo di educazione civica ma anche di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne».

Nordio, come altri esponenti del governo, vede la violenza maschile contro le donne come altro dalla cultura italiana. Parole «inaccettabili», frutto di «un razzismo strisciante», ha commentato Chiara Braga, capogruppo del Pd alla Camera. «Non si fermano agitando odio etnico», hanno ribadito le parlamentari del Pd della bicamerale femminicidio.

Se il ministro non vuole ascoltare i movimenti femministi che da anni ripetono che il femminicida «ha le chiavi di casa» e che «non è malato, ma figlio sano del patriarcato», basta leggere le storie dietro ai numeri per capire la trasversalità del fenomeno: non c’è classe sociale, non c’è provenienza, né contesto che si salvi da questa cultura radicata.

Per Riccardo Magi, segretario di +Europa, le dichiarazioni di Nordio sono «un’enorme prova di ignoranza», perché «se non fossimo certi dell’accezione xenofoba delle parole del ministro, dovremmo sentirci coinvolti, perché i numeri che dovrebbe sapere parlano chiaro».

Magi si riferisce all’ultimo rapporto Eures di novembre 2024, che registra una forte diminuzione degli autori di femminicidio di nazionalità non italiana, mentre rimane stabile il numero degli autori italiani. Nei primi 11 mesi del 2024 su 87 donne uccise in famiglia, in 16 casi si è trattato di cittadini di origine straniera: il 18 per cento. Come ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, «le statistiche aiutano a decostruire i pregiudizi» e «chiamare in causa presunte provenienze etniche come base di comportamenti criminali significa andare alla ricerca di capri espiatori e nemici».

I dati

Dai dati dovrebbe iniziare lo studio di un fenomeno. Servono numeri ufficiali, che raccontino la dimensione strutturale della violenza di genere e che ispirino le politiche. Questi dati però non esistono: il Viminale ha pubblicato ieri un report trimestrale (gennaio-marzo 2025). Una ricerca che non chiama i femminicidi con il loro nome e non studia la matrice di quelli che definisce “omicidi di donna”. Conta 17 donne uccise da inizio anno, di queste 14 in ambito familiare/affettivo, di cui 10 da ex o partner. Manca il femminicidio di Sula. Evidenzia un -34 per cento dei delitti commessi in ambito familiare/affettivo, ma è complicato registrare un calo quando i dati raccolti sono parziali.

Repressione o prevenzione?

Nordio è andato oltre: «È illusorio che l’intervento penale, che già esiste e deve essere mantenuto per affermare l’autorità dello stato, possa risolvere la situazione. Purtroppo il legislatore e la magistratura possono arrivare entro certi limiti a reprimere questi fatti».

I pochi dati disponibili danno ragione a Nordio quando afferma che le misure repressive non riducono il numero di femminicidi. Perché sono appunto repressive, operano a fatto già accaduto. È però l’unico piano su cui interviene la politica degli ultimi anni, che parla di prevenzione senza stanziare fondi per i centri antiviolenza, per l’educazione sessuo-affettiva o per campagne diffuse e continuative.

L’ultimo Piano nazionale antiviolenza è del 2021-2023. «È stato prorogato, ora sappiamo che è in scrittura un nuovo documento, dobbiamo aspettare il prossimo 25 novembre?», chiede Rossella Silvestre, di ActionAid. Dall’ultimo report dell’organizzazione, i fondi destinati ai centri antiviolenza risultano in ritardo di circa un anno e mezzo. E sono risorse frammentate: «Attualmente vengono date alle regioni, che le distribuiscono secondo la propria pianificazione», spiega Silvestre.

A questo si aggiunge, secondo Silvestre, «una quasi totale assenza di volontà politica di incidere sulla prevenzione primaria». Si chiede un approccio strutturale, «garantito dallo stato», ma l’unica cosa strutturale è il ritardo nell’allocare le risorse.

Scendere in piazza

In migliaia dall’università Sapienza di Roma, dove studiava Sula, hanno chiesto che la politica si occupi in via prioritaria del contrasto alla violenza di genere: «Siamo stanche di vivere in un paese che non ci rappresenta, il femminicidio di Ilaria non è un caso di cronaca, un evento isolato ed eccezionale, ma l’estrema rappresentazione di un sistema che è visceralmente malato». Lo hanno detto le studenti a piazzale Aldo Moro, e lo hanno ripetuto molte scuole e molte piazze.

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