La prossima sarà a Los Angeles, un’altra terza volta, dopo Parigi 1900, 1924 e 2024, Los Angeles 1932,1984 e 2028. E sì, saranno Giochi diversi. Quanto diversi, ancora non si sa, o non si può dire del tutto. Niccolò Campriani di Olimpiadi ne ha fatte tre come tiratore, tre ori e un argento, e una come tecnico della squadra dei rifugiati. A Los Angeles ne farà un’altra come organizzatore.

A 36 anni poteva stare ancora lì a sparare ai bersagli. Gli americani invece l’hanno scelto come Sport director dei loro Giochi, il che rende l’idea della responsabilità che ha addosso, ma anche della competenza che gli viene riconosciuta. All’estero capita. Campriani, come cambieranno le Olimpiadi?

«Un po’ le cambierà il mondo, un po’ le cambierà Los Angeles. Qualcuno avrebbe mai potuto pensare che a Tokyo non ci sarebbe stato il pubblico? Oppure che qui a Parigi non ci sarebbero stati i russi? Ε guardate che non è una cosa da poco, neppure per chi vince grazie alla loro assenza: è sempre una mutilazione. Geopolitica, epidemie o clima non si possono certo “organizzare».

Le gare e il loro calendario invece sì.

«Sì, e lì ci sarà il nuovo di Los Angeles. Intanto per le date, e sarà una mezza rivoluzione, almeno per due ragioni: si comincerà il 14 luglio, mai così presto. E poi si partirà con l’atletica, mentre il nuoto ci sarà nella seconda settimana».

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Uno schiaffo alla tradizione.

«Un felice mix tra esigenze organizzative e nessuna paura di cambiare qualcosa che pareva intoccabile. Il nuoto si farà in una piscina allestita nello stadio che ospita la Nfl, il football americano, che è lo stesso dove si svolgerà la cerimonia inaugurale. Sarà il più grande teatro che il nuoto abbia mai avuto a disposizione. Ma serve tempo per allestirlo».

Un’altra piscina in un impianto preesistente. Non avete paura che sia lenta come quella di Parigi?

«Mah, il problema della piscina parigina non è dove è stata installata. Ma, a quanto ho capito, della sua profondità. E comunque Los Angeles sarà da questo punto di vista un’Olimpiade estrema: non si costruirà nulla. Tutte le gare in impianti preesistenti e totalmente temporanei».

Per fortuna a Los Angeles non c’è una Senna ma un oceano per il nuoto libero e il triathlon. Con il beach volley sulla spiaggia di Santa Monica.

«Useremo le location iconiche della città: a casa dei Lakers ci sarà la ginnastica, in quella dei Clippers il basket. Oltre naturalmente al Coliseum, dove si farà l’atletica, per la terza volta nella storia dei Giochi. Vedremo o rivedremo sport nuovi, almeno per noi. Il flag football, che è una versione senza contatti e con meno atleti del football americano, e soprattutto il Lacrosse, che ha scomodato anche il presidente Biden».

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Ricordiamo di che si tratta?

«È uno sport di squadra antico, inventato dai nativi americani della regione dei Grandi Laghi. Affonda così profondamente nelle radici del paese che Biden ha anticipato un’altra piccola rivoluzione, tutta però da confermare dal Cio, il comitato olimpico internazionale: gli Haudenosaunee, padri del gioco, potrebbero partecipare come una squadra a sé stante, e non come Usa». 

Poi ci saranno altre novità o grandi ritorni.

«Tornano baseball e softball e d’altra parte siamo in America. Ed entrano cricket, che è lo sport preferito di due miliardi di persone, e squash».

Perché non il paddle, che sta conquistando il mondo?

«Perché la sua federazione internazionale non è ancora stata riconosciuta dal Cio».

Chi farà posto a tutti questi nuovi atleti? Non è che si possono aggiungere 700-800 atleti così. Farete uscire qualcuno?

«Gli organizzatori non fanno uscire nessuno. È il Cio a decidere. C’erano tre sport nel “penalty box”, una specie di limbo, anticamera di una possibile esclusione: il pentathlon moderno, che resterà anche se modificato in una versione piuttosto diversa; il sollevamento pesi, che dopo la sbornia di scandali si è rimesso a posto grazie a un programma antidoping avanzato; e la boxe». 

Che a Parigi ha dato spettacolo: polemiche sui giudici, sul genere, sulla federazione internazionale, politici scatenati, qualcuno che evoca l’ombra di Putin.

«La boxe si è fatta male da sola, e continua a farselo. Ma ricordo anche che è la disciplina dove c’è stata la prima medaglia di un rifugiato, forse la più carica di significato di tutte le Olimpiadi. E che è uno sport che continua a togliere ragazzi dalla strada».

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Il bene e il male insieme. Ma insomma, lo vedremo a Los Angeles? E soprattutto, vedremo ancora Imane Khelif?

«Domande da rivolgere al Cio, non a noi. Certo, il tema dei diritti legati all’identità di genere negli Usa è molto, molto sensibile, e lo era già ben prima di questi Giochi. Gli aspetti giuridici si intrecciano con quelli sportivi, e una materia nella quale troppi hanno parlato a vanvera. Serve un approccio molto diverso: prima di azzardare soluzioni, tutti dovrebbero ragionare su come trovare il miglior compromesso».

A vanvera sono parse anche alcune proteste in stile calcistico su giudici ed arbitri. Ma i prossimi Giochi saranno nella terra dell’innovazione. E a giudicare saranno le macchine. O no?

«Piano. La vera domanda da fare sarebbe: tra quattro anni, cosa NON faranno le macchine? È evidente che lo sviluppo dell’IA arriverà anche allo sport. Ed è altrettanto evidente che il tema tocca la sensibilità più profonda dell’uomo, e qui non c’entra lo sport. Possiamo davvero accettare che quelle che consideriamo nostre prerogative di specie vengano affidate agli algoritmi?».

Se si stratta di stabilire se una stoccata è andata a segno o se un tuffo è riuscito bene, forse sì.

«Certo, ma ci vorrà tempo e molto lavoro. L’intelligenza artificiale va addestrata. E poi bisogna distinguere: ci sono sport dove il giudizio è legato anche all’espressione artistica, non solo a un colpo dato e ricevuto. Peraltro anche nel pugilato, il contacolpi non rende mai l’idea di un combattimento, infatti è stato superato».

Però ad esempio la Var del fioretto a Parigi ha irritato più che aiutato.

«Dipende. Ha irritato chi ha perso».

C’è una corsa tra le federazioni internazionali a chi arriverà prima con l’algoritmo-giudice?

«Sì, c’è. E c’è anche chi è più avanti in questa corsa».

La ginnastica artistica?

«Sta lavorando da anni su questo tema. Posizionamento delle telecamere e istruzione all’Intelligenza artificiale, che impara “vedendo” e analizzando vecchi esercizi di eccellenza, ma anche errori. Si sperimentano le forme di giudizio parallele: quella del giudice, in chiaro, e quella che avrebbe dato la macchina elaborando i dati delle riprese tv. Si stanno avvicinando a una sovrapposizione perfetta dei giudizi. Il che non significa che la vedremo ai prossimi giochi».

E perché?

«Perché ci vuole tempo, e il tempo è poco anche se questa roba corre velocissima. Non è che uno può decidere che l’IA sarà giudice di una gara olimpica un mese, ma neppure un anno o due prima di un’edizione. C’è una lunga e complessa serie di step, normativi e tecnici. Inoltre c’è un problema più grande».

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Sarebbe?

«Non si può introdurre la tecnologia solo ai Giochi. È necessario garantire l’accessibilità a tutti, prima, durante e dopo un’Olimpiade».

Al netto delle polemiche fondate o strumentali, una cosa è sotto gli occhi di tutti: i Giochi di Parigi sono stati un eccezionale successo di pubblico. Impianti strapieni e un calore che non si ricordava. Non fa paura a chi arriva dopo?

«Parigi ha ricordato cos’è un’Olimpiade, facendo piazza pulita dei giudizi sommari di chi dice che l’olimpismo è in declino, vecchio, finito. È ancora e sempre l’unico evento che mette insieme tutti i ragazzi del mondo, e la gente lo vuole vedere, vuole emozionarsi. I Cinque Cerchi sono più vivi che mai. A Los Angeles ci sarà uno squadrone americano a portare ancora più pubblico e calore. Puntiamo a vendere 12, 13, 14 milioni di biglietti. Le dimensioni dell’intera popolazione di un piccolo Paese europeo».

Dovrete anche voi, come hanno fatto i francesi, nascondere i vostri homeless?

«Le Olimpiadi dovranno essere un volano per rilanciare Los Angeles e per l’immagine degli Stati Uniti. Ma chi le organizza non può e non deve assumere compiti non suoi. Il problema degli homeless è enorme in tutti gli Usa, pensiamo a San Francisco o San Diego, per restare in California. Ma se ne deve occupare il governo, gli Stati. Non si può avere l’arroganza di pensare che saremo noi a risolverlo».

Prima di tuffarsi nel rush organizzativo, che durerà quattro anni: ha avuto nostalgia a vedere gli atleti gareggiare?

«Come in ogni Olimpiade ho vissuto sentimenti forti e molto contrastanti. I Giochi sono un enorme amplificatore. È stata la mia quinta volta al villaggio olimpico ed è sempre così: al mattino vedi centinaia di ragazzi che aspettano la loro gara con i sogni ancora intatti, sull’orlo di un precipizio, o altri che invece nel precipizio sono già finiti perché la gara è andata male. Ma poi anche per chi ha vinto non è tanto diverso. Negli occhi dei ragazzi vedi le stesse domande: oddio, e adesso che faccio? Altri quattro anni? Anche un oro ti svuota, è capitato a me, lo so bene. Lo guardi e ti dici: tutto qui? E il brutto è che fuori non ti capiscono, neppure i tuoi amici migliori che pensano: hai vinto le Olimpiadi! Cosa ci può essere di più bello? E invece la vita fa paura».

Forse per questo a Parigi abbiamo visto più del solito, più che mai, scene di amicizia, solidarietà, quasi fratellanza tra gli atleti. Qualcuno però ha scritto che senza cattiveria e cinismo non si vince. E che se arrivi quarto hai comunque perso.

«Disputare una finale olimpica è un cazzotto nello stomaco: si gareggia contro gli altri e contro i tuoi fantasmi, si esplorano zone di te che non conosci. Avere accanto uno che sta vivendo le stesse sensazioni non solo ti aiuta, ma crea un legame che è formidabile, per sempre. Chi pensa che la cattiveria nello sport sia obbligatoria dovrebbe occuparsi di qualche altra cosa. L’Olimpiade non è fatta per costruire numeri che portino onore alla Patria, è uno strumento molto, molto potente, che espone le vite dei ragazzi che ci partecipano, soprattutto in quest’epoca di social network e di fragilità estrema. E se le organizzi non puoi fare a meno di sentire la responsabilità di usare questo strumento nel miglior modo possibile».

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