Cambiare cognome, trasferirsi lontano oppure restare con nonni e zii materni e paterni, che da un giorno all’altro diventano genitori dei propri nipoti: ciò che accade agli orfani di femminicidio in Italia è rimasto a lungo ignorato. Tuttora non esistono dati ufficiali dei loro numeri e fino a quattro anni fa non esisteva neppure una normativa dedicata.

I tribunali per i minorenni, poi, non possiedono una raccolta digitale di casi specifici come questi, e i servizi sociali intervengono a macchia di leopardo fornendo un’assistenza a orfani e famiglie affidatarie che spesso non è sufficiente. Da qualche anno il terzo settore ha intercettato questo vuoto e ha iniziato a contare gli orfani di femminicidio, rintracciandoli tramite una ricerca sul campo fatta di passaparola con i servizi territoriali e la raccolta dei fatti di cronaca.

L’impresa sociale Con i bambini, che gestisce il progetto “A braccia aperte” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, ha individuato a livello nazionale 417 orfani sotto i 21 anni. Di questi, 157 sono attualmente presi in carico dal progetto, da cui ricevono sostegno educativo ed economico insieme alle loro famiglie affidatarie.

Alcuni orfani sono stati raggiunti e affiancati dai partner dell’iniziativa fin dalle prime ore successive all’omicidio della madre. In questa circostanza, come raccontano le operatrici, il tipo di sostegno offerto è molto concreto. In assenza di parenti prossimi, si tratta per esempio di stare insieme ai figli e alle figlie della vittima nell’attesa del funerale, oppure di supportare gli orfani che devono tornare nell’abitazione dove è avvenuto l’omicidio, per recuperare le proprie cose.

La collaborazione tra forze dell’ordine, servizi sociali e presidi ospedalieri in queste situazioni diventa fondamentale per fornire un aiuto psicologico tempestivo agli orfani. Spesso sono proprio i carabinieri che intervengono sul luogo del delitto a contattare le associazioni che fanno parte della rete di supporto per gli orfani, segnalandoli agli operatori. Nel 36 per cento dei casi, infatti, i figli sono presenti al momento dell’omicidio della propria madre. Questo evento, spiegano gli esperti, ha conseguenze psicologiche devastanti, che nei bambini si possono tradurre in una vera e propria sindrome, detta child traumatic grief. Il bambino, cioè, sopraffatto dal trauma, diventa incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico.

Testimoni della violenza

Ma quando le famiglie affidatarie e i servizi sociali che intervengono non sono formati e assistiti adeguatamente, il trauma degli orfani può acuirsi. «Chi si approccia a queste persone rischia di fare danni e tanti danni sono stati fatti», dice Salvatore Fedele, coordinatore della Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali. Il progetto, riassunto nell’acronimo Respiro, opera da tre anni nelle regioni del Sud Italia, dove la concentrazione di femminicidi e di orfani è più alta.

Da quando il progetto è stato avviato, Fedele ha riscontrato uno stato di abbandono diffuso dei cosiddetti orfani storici, ovvero delle ragazze e dei ragazzi diventati orfani negli ultimi 15 anni. Molti di loro sono stati rintracciati attraverso un lungo lavoro di mediazione con familiari, insegnanti ed enti territoriali, dopo che se ne erano perse le tracce. Alcuni, provenienti da contesti mafiosi, hanno vissuto per anni all’interno di programmi di protezione in contesti di isolamento, altri hanno cambiato identità.

Dal 2018 per gli orfani di femminicidio la legge italiana prevede interventi di tutela appositi, tra cui l’assistenza psicologica gratuita, la possibilità di cambiare cognome, l’accesso a borse di studio, a quote di assunzioni dedicate e a un sostegno economico per le famiglie affidatarie di circa 300 euro al mese. Eppure, secondo quanto emerso dall’analisi della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, la maggior parte delle famiglie affidatarie si trova in condizioni di forte difficoltà economica e non ha ricevuto alcuna assistenza da parte dei servizi sociali.

Dove a mancare è il supporto psicologico, anche i parenti prossimi, spesso sprovvisti di strumenti per affrontare il trauma, possono diventare artefici di vittimizzazione secondaria. Questa si verifica quando gli orfani, vittime anche loro dei maltrattamenti del padre o per aver assistito all’uccisione della madre, continuano a subire altre forme di violenza, soprattutto psicologica.

È il caso di famiglie dove si parla del femminicidio come se si fosse trattato di un incidente: «Alcune lo fanno pensando di proteggere gli orfani», racconta un’operatrice. «Non ammettono che il responsabile della morte è il padre, anche quando il figlio ne è consapevole. In casi di questo tipo, ci siamo trovati di fronte a orfani vissuti per anni in una grave condizione di dissociazione, e i danni psicologici sono enormi».

Non tutti gli orfani però accettano l’aiuto offerto dai servizi e dal terzo settore. Tanti sono diffidenti, alcuni temono di essere destabilizzati ulteriormente e preferiscono evitare di intraprendere un percorso psicologico e psicoterapeutico. Altri ancora, che desiderano mantenere un rapporto con il proprio padre, preferiscono evitare il confronto. «Immaginiamo che gli orfani odino sempre il padre, ma in diversi casi la cultura patriarcale fa sì che i figli parlino del femminicidio come di un raptus o di un gesto di follia temporanea, magari perché la madre si voleva separare», dice un operatore. Ciò accade anche quando tra le mura domestiche le violenze, psicologiche e fisiche, precedenti all’omicidio sono frequenti e radicate.

Per questo, tra le attività proposte dai partner del progetto Con i bambini, alcune sono mirate a rielaborare i maltrattamenti vissuti fornendo chiavi di lettura delle dinamiche di violenza assistita di cui sono stati spettatori i figli e le figlie delle donne uccise, spesso ignari di essere anche loro delle vittime.

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