- L’Italia è stata appena condannata per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici: una vicenda simbolo di una rivoluzione annunciata, ma mai arrivata nel nostro paese.
- La svolta dellegge Basaglia non ha inciso sugli ospedali psichiatrici giudiziari che di fatto continuano a presentare «un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale», è scritto in un’inchiesta parlamentare.
- I successivi tentativi di migliorare la situazione si sono scontrati con mancanza di fondi, disinteresse della politica e una stratificazione di leggi che rende difficile o quasi impossibile orientarsi.
È divenuta definitiva l’ennesima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti, annunciata a gennaio scorso. A finire sotto osservazione, stavolta, la tutela del diritto alla salute dei carcerati e, in particolare, il sistema delle Rems (acronimo delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), simbolo di una rivoluzione annunciata e mai realizzata. La Cedu ha condannato il nostro paese per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici.
Una storia che si ripete
Tutto ha inizio nel 2011, è il 16 marzo quando al Senato viene indetta una conferenza stampa per illustrare il lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino, presso i sei ospedali psichiatrici giudiziari nazionali.
Il filmato, sconvolgente nella sua verità fatta di cinghie di contenzione e di celle maleodoranti (faceva eccezione solo la struttura di Castiglione delle Stiviere), scuote l’opinione pubblica riaprendo una pagina triste della storia del nostro paese che si pensava definitivamente superata con la legge 180 del 1978 che aveva chiuso i manicomi.
A ben guardare, la svolta legislativa introdotta con la legge Basaglia non aveva inciso sugli ospedali psichiatrici giudiziari che di fatto presentavano, come si leggerà pochi mesi più tardi nella relazione finale, «un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale».
L’indignazione unanime, ben rappresentata dalle parole del capo dello stato, Giorgio Napolitano, che parlò di «estremo orrore», costrinse la politica, da sempre indifferente alla questione, ad affrontare il problema dei manicomi criminali nei quali venivano trattenute a vario titolo 1.378 persone.
Riforme a metà
Per dare un segnale forte e immediato all’opinione pubblica, la riforma fu inserita, seppur laconicamente, in uno dei primi decreti legge (211 del 2011), comunemente noti come “svuota carceri” perché volti a mitigare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, già diventato problema sovranazionale a seguito della sentenza di condanna della Cedu inflitta all’Italia nel 2009.
La «rivoluzione gentile», come la definì, ancora sull’onda dell’entusiasmo, il commissario straordinario nominato ad hoc, Franco Corleone, era destinata, sulla carta, a cambiare radicalmente un aspetto tanto importante quanto delicato del nostro sistema giudiziario attraverso una nuova visione che metteva al primo posto la cura del malato di mente autore di reato, imponendo standard minimi di trattamento che prendevano le distanze non solo dal modello manicomiale ma anche dal tipico modello penitenziario.
Per il delinquente affetto da disturbo mentale e socialmente pericoloso si sarebbero così aperte le porte (senza sbarre) delle nuove Rems, strutture su base regionale, a vocazione riabilitativa e ad esclusiva gestione sanitaria.
L’ostentata portata rivoluzionaria del decreto fu tuttavia accompagnata da una dotazione finanziaria assolutamente insufficiente, tanto che la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari fu posticipata al 2015 e, di fatto, i cancelli degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) si chiusero definitivamente solo nel 2017 quando il nuovo impianto giuridico-sanitario, del tutto inadeguato rispetto alle esigenze concrete, era già al collasso.
I casi Guerrieri e Sy
In quello stesso anno nel carcere romano di Regina Coeli, Valerio Guerrieri, un giovane di soli ventidue anni, si tolse la vita impiccandosi nella propria cella dove si trovava nonostante fosse destinatario, a causa del disturbo mentale di cui era affetto, di una misura di sicurezza da scontare in una Rems.
L’anno successivo fu la volta di Giacomo Sy, detenuto nel carcere di Rebibbia nonostante la perizia avesse stabilito che le sue condizioni richiedessero «cure e riabilitazione terapeutica invece della detenzione».
Il giovane, affetto da disturbo bipolare, dopo aver tentato il suicidio nel penitenziario capitolino, si rivolse con l’aiuto dei suoi legali alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e, come avevano fatto i detenuti Sulejmanovic nel 2003 e Torreggiani nel 2009, denunciò la violazione da parte dell’Italia dell’articolo 3 della Convenzione.
I giudici di Strasburgo, in accoglimento del ricorso, ordinarono al governo di assicurare il trasferimento del ricorrente in una Rems o in altra struttura in grado di fornire cure terapeutiche adeguate alla sua patologia mentale (il tema dell’assistenza psichiatrica in carcere attende ancora l’intervento del legislatore) e a gennaio di quest’anno condannano l’Italia al risarcimento dei danni subiti dal ricorrente privato delle cure necessarie.
La sentenza pilota
Contemporaneamente, nel caso Ciotta c/Italia, la Corte di Strasburgo adotta un provvedimento in via d’urgenza volto a far cessare immediatamente la detenzione illegale di un altro soggetto psichiatrico all’interno di istituto penitenziario ordinario.
L’intervento censore dell’organo di giustizia sovranazionale non giunge inaspettato e, soprattutto, visto il numero di ricorsi analoghi, non prelude a nulla di buono (è molto probabile che la Corte decida di applicare la procedura della cosiddetta “sentenza pilota” per imporre all’Italia modifiche strutturali del sistema).
Sin dall’entrata in vigore della riforma, numerose sono state, infatti, le criticità sollevate a fronte di un intervento legislativo carente e disarticolato. A partire dalla stratificazione normativa che, decreto dopo decreto, è andata sovrapponendosi al codice penale, pur senza modificarlo nella parte in cui dal 1930 separa in un doppio binario gli imputabili (ai quali si applica una pena) dai non imputabili (ai quali si applica la misura di sicurezza) e pur senza adeguare le vecchie misure alle nuove modalità esecutive.
Fino all’inadeguatezza del sistema territoriale di salute mentale, già insufficiente rispetto ai bisogni dei pazienti psichiatrici estranei al circuito penale e, pertanto, difficilmente in grado di soddisfare la pretesa di una presa in carico delle persone che, nel disegno della legge, dovevano essere “dimesse senza indugio” una volta cessata la pericolosità.
Liste d’attesa
Nel corso di questi undici anni, complice quella politica non troppo appassionata al tema, i problemi si sono moltiplicati e le conseguenze sono drammatiche se si guarda ai numeri: 750, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono i soggetti in lista d’attesa per fare ingresso in una Rems.
Il tempo medio di attesa è di 304 giorni, ma ci sono regioni come Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio in cui l’attesa arriva fino a 458 giorni. Ciò vuol dire che se il soggetto autore di reato ritenuto pericoloso è detenuto attenderà il suo turno in carcere (illegittimamente, come rilevato dalla Corte), se è libero, lo farà all’esterno del carcere, con tutto ciò che ne consegue sia in termini di cure, sia in termini di sicurezza sociale.
Della gravità della situazione ne ha dato atto la stessa Corte costituzionale con la sentenza 22 del 27 gennaio scorso con la quale, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità sollevate, il cui accoglimento avrebbe creato un intollerabile vuoto di tutela, ha esortato il legislatore a intervenire con una riforma organica del sistema che, evidentemente, nonostante i proclami, non c’è mai stata.
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