Almeno 500mila i cittadini del Veneto hanno il sangue contaminato da acidi perfluoroalchilici. È l’effetto del maggior caso di inquinamento da Pfas noto al mondo. L’inchiesta sul caso Miteni è scelta e finanziata dai lettori
- L'udienza del 30 novembre è durata pochi minuti: il giudice per l’udienza preliminare Roberto Venditti rinvia al 25 gennaio 2021. Il processo Miteni continua.
- I 350mila residenti tra le province di Vicenza, Verona, Padova e Venezia che sette anni fa hanno scoperto di vivere in un territorio fortemente contaminato dagli acidi perfluoroalchilici dovranno aspettare ancora.
- Per loro, che ci sia un processo è importante ma non basta. Vogliono la bonifica e un'indagine che nel lungo periodo metta in luce anche tutta una serie di connessioni e di responsabilità ancora a margine delle indagini.
L'udienza del 30 novembre è durata pochi minuti: il giudice per l’udienza preliminare Roberto Venditti rinvia al 25 gennaio 2021. Il processo Miteni continua. All'esterno della procura di Vicenza, nonostante ill freddo pungente, non manca la rappresentanza delle MammeNoPfas, con striscione e magliette che chiedono '0 PFAS'. Michela Zamboni è una di loro. «Continuerò a venire, perché voglio che ci vedano e spero, un domani, di vedere gli imputati» dice. «Siamo qui, al di là delle aspettative sul processo, per dimostrare a tutti che con pazienza e determinazione si possono far valere i propri diritti. E lo facciamo soprattutto per i più giovani, i dirigenti di domani, perché decidano per il bene della collettività e non orientati solo al profitto».
I 350mila residenti tra le province di Vicenza, Verona, Padova e Venezia che sette anni fa hanno scoperto di vivere in un territorio fortemente contaminato dagli acidi perfluoroalchilici dovranno pazientare ancora. Il rinvio è dovuto a questioni tecniche e di sostanza: da una parte non ci sono ancora tutte le necessarie traduzioni in giapponese per le notifiche a quattro degli ex manager imputati, dall'altra si lavora a unificare il procedimento per il decennale inquinamento iniziato negli anni Sessanta e continuato fino al 2013, il filone d’inchiesta sullo sversamento dei Pfas di nuova generazione (C6O4 e GenX) iniziato nel 2013, oltre alla bancarotta fraudolenta che sarebbe avvenuta in occasione del fallimento di Miteni spa due anni fa. La novità sta nella richiesta di rinvio a giudizio per otto manager dell’azienda chimica di Trissino.
Le parti civili sono le più attente ai tempi lunghi del processo, come le MammeNoPfas, appunto, e altri personaggi chiave di questa lunga storia, che vedono il processo come una vittoria, ma non si accontentano. A partire da Alberto Peruffo, libraio, editore e attivista. La sua libreria a Montecchio Maggiore è una specie di piccolo museo delle lotte contro i Pfas. Le locandine delle Marce dei Pfiori, che portarono migliaia di persone davanti ai cancelli Miteni prima della chiusura, le serate organizzate per informare la popolazione, al cinema San Pietro e non solo; la lectio magistralis del professor Angelo Moretto organizzata da Miteni e sostenuta da Confindustria per i soli sindaci del territorio, che il movimento riuscì a fermare. Una storia di battaglie che, stando all'impianto accusatorio dei procuratori di Vicenza che hanno chiesto il rinvio a giudizio, danno loro ragione.
Le connessioni pericolose
«Da quando è scoppiata la bomba, nel 2016, ne abbiamo fatta di strada. Ma eravamo in tanti, da tempo, a dire che quella fabbrica era pericolosa. Il 2017 è stato l'anno della svolta e alla fine la procura si è messa in moto, anche grazie a materiale auto-prodotto da noi. Portare in Italia l'avvocato Billot, il protagonista della battaglia legale alla Dupont negli Stati Uniti, è stato importante, al punto che la procura lo ha sentito come persona informata dei fatti». Ma non basta, per Alberto e per molti altri. La bonifica, prima di tutto, ma anche un'indagine che nel lungo periodo metta in luce anche tutta una serie di connessioni e di responsabilità ancora a margine delle indagini. «C’è un dato di fatto nei grandi crimini ambientali: i responsabili non inquinano così tanto, massivamente e indiscriminatamente, senza essere in qualche modo coperti dai permessi, dalle maglie larghe, dai controlli non effettuati, dei corresponsabili. Troppo grande è l’inquinamento. Non arriverebbero mai a tanto. Si cerca, di fatto e sulle carte, di diluire le responsabilità nel caso si venisse beccati. Come ora».
Il tema delle corresponsabilità è stato sollevato anche da Greenpeace, che segue il caso fin dall’inizio, in particolare per quanto riguarda il secondo filone d’inchiesta, quello sul GenX. Nel rapporto “Sette scomode verità sul GenX” pubblicato il 13 luglio 2018, Greenpeace sostiene di possedere documenti che provano come la Miteni, dal 2014 al 2017, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dalla Regione Veneto a trattare rifiuti chimici pericolosi, abbia ricevuto ogni anno dall’Olanda, e nello specifico dalla Dupont (oggi Chemours) almeno 100 tonnellate all’anno di rifiuti contenenti GenX. Dal canto suo la Regione, per bocca dell’assessore all’ambiente Giampaolo Bottacin, difende strenuamente il suo operato, specie in termini di filtrazione e imposizione di limiti all’acqua potabile, limiti che a livello nazionale ancora – inspiegabilmente – non ci sono.
Le risposte alla storia emergeranno dal processo. Per ora gli imputati, attraverso i loro legali, non parlano. Alla richiesta di intervista per questo articolo, l'avvocato Furin e l'avvocato Lageard, rispettivamente legali di Luigi Guarracino, Mario Fabris, Davide Drusian, Mauro Cognolato e Mario Mistrorigo il primo e dei giapponesi Maki Hasoda, Kenji Ito, Naoyuki Kimura e Yuji Suetsune – tutti manager Mitsubishi – il secondo, hanno declinato l'invito.
Lotta di operai e cittadini
Un avvocato che accetta l'intervista è Edoardo Bortolotto, rappresentante di 41 ex-dipendenti della Miteni, che si sono costituiti nel comitato informale CALMI e che nel processo per disastro innominato e avvelenamento delle acque sono parte civile. Una lotta che ha unito operai e cittadini, come Peruffo sottolinea con orgoglio, mostrando una locandina di una manifestazione unitaria del 26 novembre 2018, quando la Miteni li licenziò tutti a pochi giorni dalla dichiarazione di fallimento. «Coinvolgerli fu determinante» dice Peruffo. «Non era facile per loro, anche e soprattutto per la cultura del lavoro di queste terre. Vecchi attivisti raccontano che di fronte ai primi disastri ambientali degli anni Settanta, qui la gente commentava “mejo morir de tumore che de pelagra”».
Molti di loro hanno grandi problemi di salute. Forse anche per questo, spiega Edoardo Bortolotto, «qui, dopo un po' di divergenze, all'inizio, tra operai e movimenti di protesta non ci sono mai state tensioni come altrove. Adesso è un unico gruppo. Per molti non è stato facile perché cresciuti in una cultura per la quale il lavoro viene prima di tutto: non riuscivano a immaginare che il datore di lavoro, il paron, potesse non tutelarne la salute. Ma è andata così. Io già dal 2013 ho appoggiato queste istanze della società civile, con due esposti in procura che caddero nel vuoto. Oggi ce l'abbiamo fatta, e dobbiamo andare avanti. Com’è possibile che il dottor Costa, medico Miteni, non sia chiamato a rispondere dei fatti? Era in stretto contatto con i suoi omologhi della Dupont, sapeva tutto sulla contaminazione del sangue dei lavoratori. Anche la Regione deve chiarire. Negli ultimi anni, la Miteni era ormai diventata il polo dello smaltimento dei rifiuti tossici che arrivavano da altrove, come la Solvay di Spinetta Marengo e dall'Olanda. I fanghi, dopo l'estrazione dei materiali ancora utilizzabili, venivano sversati qui e c'era un'autorizzazione del 2013 a permetterlo, ma come si è potuto firmarla se non c'erano le conoscenze per valutare? Gli esami che venivano fatti ai dipendenti cercavano sostanze che non si producevano più in fabbrica, perché? Vogliamo giustizia, perché non capiti più».
Disastro ambientale
Tra le parti civili del processo ci sono anche le aziende di gestione del servizio idrico. Delle quattro, la più prossima alla fonte di inquinamento è Acque del Chiampo. Il disastro ambientale è costato per ora quasi dieci milioni di euro, come spiega il vice direttore Andrea Chiorboli. «I maggiori interventi sono consistiti nell’installare filtri a carboni attivi nella nostra rete e nella costruzione di nuovi acquedotti per gli abitanti delle molte case sparse del nostro territorio i cui pozzi privati erano contaminati. L’inquinamento ha trovato noi gestori uniti nelle contromisure, ma purtroppo ha obbligato ad accantonare nuove opere in previsione per i prossimi dieci anni». I controlli delle acque sono costanti, la presenza di Pfas è sotto i limiti, ma raramente è zero. La somma di Pfoa e Pfos, secondo le analisi della società, superano in alcuni casi ancora adesso i 30 nanogrammi al litro. Mentre nelle pubblicazioni offerte ai cittadini non c’è traccia dei valori di C6O4 e GenX presenti nell’acqua. «Qualora venissero individuati i responsabili di tutto questo, i proventi verranno investiti per il miglioramento della nostra rete che trarrà beneficio anche dalle nuove dorsali in fase di realizzazione» dice Chiorboli. Nel frattempo, nello stabilimento Miteni, gli indiani di Viva Life Sciences Private Limited lavorano per smontare gli impianti che hanno acquistato all’asta, mentre in primavera è partito il cantiere per la messa in sicurezza che sta realizzando un palancolato per separare la fabbrica dal torrente Poscola. Il tema della bonifica è centrale. I cittadini si chiedono perché le autorità dopo il fallimento non abbiamo ripulito immediatamente un sito dal cui sottosuolo tuttora escono inquinanti in falda. Matteo Macilotti, sindaco di Chiampo e consigliere provinciale con delega all’ambiente, dice: «Era necessario un piano per la bonifica. Intervenire senza la caratterizzazione del sottosuolo e l’analisi approfondita della situazione poteva per assurdo essere più dannoso. In questi anni di duro lavoro abbiamo coinvolto nella partita anche Mitsubishi ed Eni, già proprietarie dell’azienda e abbiamo ottenuto che Ici3 (ultima proprietaria di Miteni, ndr) versasse la polizza fidejussoria per garantire i fondi. Se il pubblico si fosse preso i costi inizialmente, dubito che poi sarebbe riuscito a farsi risarcire da queste multinazionali». A primavera il sito sarà messo in sicurezza, quindi verrà caratterizzato e solo in seguito bonificato. Sarà un lungo processo, speriamo non quanto quello penale.
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