Quello che vedremo con le semifinali dell’Europeo femminile è dunque solo un frammento di una storia più grande e variegata, che intreccia persone e allaccia competenze. Fino a creare un vero sistema. Niente è per caso. Nemmeno il fatto che tre dei quattro allenatori che si stanno giocando l’oro a Bruxelles siano stati fabbricati in Italia.
Per capire la scuola italiana del volley bisogna voltarsi e camminare nella storia. Personale e collettiva. Mauro Berruto, il ct che portò via il bronzo dai Giochi di Londra 2012 con la nazionale maschile, dice che «sono oltre trent’anni che la pallavolo italiana sta ai vertici». E a parte qualche momento no, così comune e usuale nello sport, «stare costantemente in alto in una disciplina planetaria come la pallavolo è una cosa monumentale».
Quello che vedremo oggi con le semifinali dell’Europeo femminile è dunque solo un frammento di una storia più grande e variegata, che intreccia persone e allaccia competenze.
Fino a creare un vero sistema. Niente è per caso. Nemmeno il fatto che tre dei quattro allenatori che si stanno giocando l’oro a Bruxelles siano stati fabbricati in Italia. Uno è Davide Mazzanti, nato a Fano, una casa a Cervia, ct azzurro dal 2017, già campione d’Europa nel 2022. Mite, gentile, riflessivo. Uscì della scuola media sugli allori.
«Ma la realtà era un’altra», ha raccontato. La folgorazione arrivò con il professore di elettronica. La insegnava così bene («anzi benissimo») che Mazzanti decise di voler essere come lui. «Così, diplomato con 56/60, mi iscrissi a Ingegneria». Nel suo destino però c’era la pallavolo. Giocava a Marotta. «Bravino ma senza brillare». Dalla terza divisione era salito fino alla serie C, ma lui restava convinto che un giorno avrebbe insegnato elettronica.
Poi l’incontro con Angelo Lorenzetti, altro coach azzurro style. «Mi costrinse a pensare: no, non ho il talento per Ingegneria, ma per la pallavolo». Cominciò con le ragazze (prima le under 14) e non le ha più lasciate. «Intanto studiavo, tanto, come un forsennato. Divoravo videocassette di corsi per allenatori. Volevo sapere tutto».
«La vittoria dà dipendenza»
Di preparazione e studio sono affamati tutti quanti. Figuriamoci Daniele Santarelli, il ct della Turchia che oggi se la vedrà proprio con l’Italia in semifinale. Ha solo 42 anni ed è già diventato campione di tutto. Prima con i club e adesso anche con la nazionale. Non quella azzurra, ma con la Serbia. È con loro che l’anno scorso Santarelli ha vinto il campionato del mondo. Ipse dixit: «I sogni non muoiono mai, servono per trovare sempre la forza di realizzarli».
Da bambino sognava di fare l’allenatore di volley. Femminile, oltretutto. Ci è riuscito. Cresciuto in una famiglia di impiegati («Non sportivi», ha sempre voluto precisare), il padre Gualtiero lavorava alla Telecom, la mamma Giuliana alla Olivetti. «Ero io che cercavo lo sport giusto, quello adatto a me, e li ho provati tutti: dal tennis al calcio, finalmente nella pallavolo ho trovato la mia dimensione». Erano tempi buoni per il volley: c'era la Nazionale di Julio Velasco e, a Perugia, anche la forte squadra femminile della Despar.
Di tutta quella bellezza Santarelli ne ha fatto un sogno, poi una professione, adesso una forma di realizzazione. «È stato semplice scegliere, quasi naturale, come avvicinarsi al Milan che allora vinceva tutto». E ancora: «Già da allora pensavo di vivere con lo sport, volevo fare l'insegnante di educazione fisica».
Dall’altra parte del tabellone c’è Giovanni Guidetti, che adesso allena la Serbia (se la vedrà contro l’Olanda). Modenese, 50 anni, arriva da una famiglia di allenatori. Adriano, il padre, ha fatto la storia del volley.
«La vittoria genera dipendenza. È la peggiore delle droghe e smetti solo quando ti rinchiudono in un centro terapeutico. Non ti basta mai, ne vuoi sempre di più». Nel 2008 è volato via ed è andato ad allenare in Turchia.
Lì si è sposato, ha messo su la sua storia e una famiglia. Dopo 14 anni di sua gestione, il Vakifbank Istanbul è diventato la cartina di tornasole delle sue ambizioni. Con Guidetti in panchina ha vinto 6 Champions League, 4 Mondiali per Club e titoli nazionali a non finire. Ha detto: «Non vinci se non costruisci, se non brami la vittoria con tutto te stesso, se non ti metti continuamente in discussione».
Cultura
A mettere insieme tutti questi fragmenta, in fondo, è una cosa sola: la cultura pallavolistica del nostro Paese. I numeri ufficiali della Federvolley parlano di 17.317 tecnici all’attivo. I gradi di preparazione sono di quattro livelli e i corsi organizzati dai comitati periferici (territoriali e regionali) arrivano a 146. Di certo, dice ancora Berruto, «la scuola italiana ha come dato comune lo studio e la preparazione delle partite».
L’analisi attenta dei dati, le statistiche, l’attenzione all’avversario. I dettagli contano. «E questo aspetto in altri Paesi non c’è. Poi, come in un’orchestra jazz, ognuno ci mette del suo».
La federazione spende 200mila euro l’anno per qualificare e formare i suoi tecnici. Tutte le nazionali - 3 maschili e 3 femminili - hanno vinto l’Europeo. Nessuno, nella storia di questo sport, aveva mai fatto tanto. I soldi aiutano. Ma, come dice Berruto, «c’è una qualità nell’attenzione all’utilizzo delle risorse, che non sono infinite».
Il parallelo è con il rugby che negli ultimi anni ha avuto molte risorse, anche se i risultati non sono stati proprio gli stessi. Non è un fatto economico. Emanuele Zanini, oggi ct del Belgio, dice che «le risorse vengono investite molto bene» al punto da creare una «leadership che ormai è consolidata». E ancora Berruto: «La pallavolo è stata capace di radicarsi in tante città medio-grandi di provincia. Non tanto nei centri urbani, dove la pallavolo è durata poco. Macerata, Perugia, Trento, cioè tessuti di città in cui senti la squadra come qualcosa da difendere».
A inizio Europeo otto commissari tecnici su 24 provenivano dalla scuola azzurra. Uno su tre, un rapporto difficile da ritrovare nello sport a livello internazionale. Dentro c’è tutto: dagli emergenti nemmeno quarantenni ai veterani, dai leader da medaglia d’oro a tecnici di nazionali senza tradizione. I tre superstiti di questa grande sfida all’italiana hanno gestito tutti Paola Egonu.
Santarelli l’aveva avuta all’Imoco. «Paola non è mai stata un problema, la gestione di queste campionesse è più semplice perché sono brave e devono essere ascoltate se le cose non vanno». Guidetti allenava Egonu in Turchia. Ha dovuto lasciare che tornasse in Italia. «È venuta a Istanbul per migliorare, si è fatta voler bene. Non abbiamo potuto tenerla e mi dispiace». Adesso Paola è rimasta nelle mani di Mazzanti, un cerino acceso.
In panchina
Il ct in questo Europeo la tiene preferibilmente in panchina, preferendole Kate Antropova, diventata italiana appena in tempo. Egonu è considerata la più forte del mondo, ma nell’Italia adesso siede in panchina. Mazzanti punta sul gruppo, e con questa scelta evidentemente lo ha reso chiaro a tutti.
Alla vigilia dell’Europeo ha detto che schierare Antropova insieme a Egonu era «una possibilità, ma non credo sarà la prima strada». È qualcosa che richiede tempo e «l’Europeo non è il luogo degli esperimenti». Per dimostrarci che ha ragione ha una strada soltanto: vincere con Antropova, e prepararci al momento in cui l’Italia sarà pronta a giocare con due primedonne. Una nata in Russia, l’altra a Cittadella.
Anche il generale più intervistato d’Italia, Roberto Vannacci, ha detto la sua. «Se trovo giusto che Egonu giochi con l'Italia? Assolutamente sì. Quando vedo una persona con la pelle scura non la identifico subito come appartenente all’etnia italiana.
Non perché io sia razzista ma perché da 8mila anni l’italiano stereotipato è bianco. Se vede una persona dalla pelle scura non gli viene in mente che sia italiana. Ciò non toglie che possa essere italiana». Dopo aver vinto il bronzo agli ultimi mondiali, Egonu si sfogò. «Mi hanno chiesto anche se fossi italiana, questa è la mia ultima partita con la nazionale». È affollatissima quella panchina.
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