Paolo Scaroni è un tifoso del Brescia. Nel 2005 la “celere” gli ha sfondato il cranio in stazione a Verona. Dal coma al risveglio ma da invalido al 100 per cento. Amnesty: «Da allora chiediamo i numeri identificativi»
«Per lo Stato italiano sono un morto che cammina». A parlare è Paolo Scaroni, ultras del Brescia la cui vita si è fermata alla trasferta veronese del 24 settembre del 2005 con la sua squadra del cuore.
Quel giorno una serie di colpi di manganello, assestati violentemente dalla Polizia, gli hanno spaccato la testa rendendolo invalido al 100 per cento. Paolo, all’epoca dei fatti, era un giovane allevatore di tori di Castenedolo e faceva parte del gruppo di ultras «Brescia 1911». Frequentatore assiduo degli spalti dello stadio Rigamonti, non tanto per l’undici di Rolando Maran ma per stare insieme ai suoi amici, nel settembre del 2005 insieme ad altri 800 tifosi decide di seguire in trasferta le Rondinelle che giocheranno contro l’Hellas. A fine partita il tabellone del Bentegodi segnerà un mero zero a zero ma è lì dentro che, dopo la partita, ci sarà qualche contatto tra le due tifoserie avversarie.
I tifosi bresciani verranno scortati in una stazione vuota, la situazione è tranquilla e Paolo va al McDonald’s per prendersi un panino. Tornato sulla panchina viene travolto da una delle tre violente cariche della celere. Finisce a terra e lì parte la scarica di manganellate «che si ripetevano violentemente sulla mia testa tant’è che io addirittura riuscivo a distinguere i colpi che mi venivano inferti con il manganello dalla parte giusta e quelli con il manganello dalla parte sbagliata. Quelli dalla parte giusta si flettevano sul capo, quelli dalla parte sbagliata si affossavano nel capo», ricorda con Domani quei momenti.
Le cariche della Polizia provocheranno 32 feriti tra cui una ragazza con il seno tumefatto e altri due giovani con trauma cranico e mani fratturate. Paolo tenta di rialzarsi e salire sul treno, lì vomita e poi viene portato dagli amici sulla banchina dove sviene. I soccorsi arriveranno con mezz’ora di ritardo. Alle 19:45 entra in coma e ci resterà per ben due mesi. I tifosi del «Brescia 1911» smettono di andare allo stadio e, tutte le domeniche, si danno appuntamento davanti all’ospedale veronese per fare il tifo per lui. Si risveglierà dal coma il 30 ottobre del 2005, durante un prelievo di sangue, con un corpo che non rispondeva più agli stimoli e all’interno di un reparto piantonato ventiquattr’ore al giorno dalla Polizia. Verrà poi trasferito per i successivi sei mesi all’ospedale riabilitativo di Negrar dove si ritroverà «a dover rimparare a fare tutto come fossi un bambino appena nato».
Pestaggio selvaggio
Ed è qui che la sua neurologa gli svelerà di essere stato pestato selvaggiamente dalla Polizia. Versione che, inizialmente, non coincide con la relazione ufficiale di un dirigente della questura di Verona.
Per il funzionario la responsabilità degli scontri era dovuta agli ultras bresciani che «occuparono il primo binario bloccando la testa del treno» e che per far rilasciare due arrestati «assaltano i nostri reparti con cinghie, aste di ferro, calci, pugni e scagliando massi presi dai binari. La celere li carica solo per prevenire violenze sui viaggiatori». Si fa riferimento a Paolo solamente nell’ultima pagina del rapporto come «un tifoso colto da malore a bordo del treno».
Chi lo ha ridotto così? Secondo una prima ricostruzione sarebbero stati degli «scontri con gli ultras veronesi». Versione che crolla subito, la stazione di Verona era deserta. Arriva una seconda ricostruzione secondo cui a ferirlo sarebbe stato «uno dei massi lanciati dagli ultras». La verità che emerge dalle indagini è completamente diversa. I macchinisti del treno dichiarano che i tifosi erano assolutamente tranquilli e non avevano occupato nessun binario. Alle loro parole si aggiungono quelle di quattro agenti della polizia ferroviaria secondo cui i disordini «sono cominciati solo quando la celere ha lanciato lacrimogeni dentro uno scompartimento dove c’erano tante donne e bambini piangenti». Gli ultras, arrabbiati, iniziano a chiedere spiegazioni e in quel momento la celere carica l’intera tifoseria. Da lì trenta minuti di mattanza durante la quale, come confermano i referti medici, Paolo viene colpito »sempre e solo alla testa».
Depistaggi impuniti
Di quel pestaggio però non c’è traccia nei filmati consegnati dalla polizia ai magistrati. Nel 2013 otto agenti del reparto Mobile della Questura di Bologna vengono assolti in primo grado per insufficienza di prove, vista l’impossibilità di identificarli, ma viene appurato che Scaroni da parte della Polizia «subì un pestaggio gratuito e immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza». Di più, viene confermata anche la manomissione delle riprese e come, quella sera, «le forze dell’ordine siano diventate esse stesse un fattore di disordine».
La Corte di Appello di Venezia conferma la sentenza di primo grado mentre, in sede civile, a Paolo viene riconosciuto, nel settembre del 2016, un risarcimento di un milione e quattrocentomila euro per il pestaggio subìto.
Come dichiara Ilaria Marinara, responsabile ufficio campagne per Amnesty International Italia: «A settembre 2025 saranno trascorsi vent'anni da quella tragica violenza subita da Paolo Scaroni per mano delle forze di polizia alla stazione di Verona. Vent'anni in cui chi doveva pagare per l'invalidità causata a Paolo non ha pagato. Vent'anni di campagne della società civile e di Paolo stesso per chiedere l'introduzione dei codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico, ma su questo molta altra strada c'è da fare». Oggi Paolo è invalido con totale inabilità lavorativa. Ha dovuto chiudere la sua attività e il dramma della sua vita è diventato quello di «colmare i vuoti delle mie giornate». Chi lo ha massacrato e ridotto in queste condizioni, invece, non ha pagato alcunché.
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