- Paolo Sorrentino non ha vinto l’Oscar. Ma non si lamenta. La serata ha fatto discutere per il pugno di Will Smith a Chris Rock. «In quel momento avevo scovato un delizioso angoletto dove fumare, quindi io questo schiaffo non l’ho visto».
- Sulla serata durante la guerra in Ucraina «Provavo sentimenti contrastanti. Non era il momento ideale per gli Oscar, per me è stato imbarazzante. Ma la vita funziona così. Forse questa guerra è anche una questione legata alle distanze, e gli americani non la vivono come noi».
- Non commenta Coda: «Non farmi fare il critico. Avrei fatto vincere Licorice Pizza, il film che mi è piaciuto di più. Mi piace parlare dei film che mi travolgono, non degli altri. Licorice Pizza è dirompente».
Il regista Paolo Sorrentino ha fatto tardi la notte degli Oscar. Ha accompagnato suo figlio alla festa «di una casa discografica, suonava un gruppo di cui non ricordo il nome. Ma mi sono divertito», dice. E dice anche che era a fumare mentre Will Smith dava uno schiaffo a Chris Rock. «In quel momento avevo scovato un delizioso angoletto dove fumare, quindi io questo schiaffo non l’ho visto. Me l’hanno raccontato gli altri. Comunque io mi faccio i fatti miei, ognuno dà gli schiaffi che vuole. Non bisogna intervenire nelle questioni altrui», aggiunge. Che si mettano il cuore in pace le femministe d’Italia che accusano l’attore premio Oscar di maschilismo e tutti gli altri che hanno criticato il suo gesto.
Sicuramente il risveglio a Los Angeles, con la pioggia battente come non si vedeva da un po’, non mette di buonumore. Neppure me che speravo in un tuffo rigenerante in piscina, figuriamoci lui, Sorrentino, che è arrivato qui con il film È stata la mano di Dio, e ha visto sfumare la vittoria. Andata al film giapponese Drive my car.
Lui, tazza di caffè in mano, sembra di buonumore a parte quando chiede di no fare domande che esulano dal cinema «Grazie per la fiducia ma conosco solo il cinema».
Non giriamoci intorno, abbiamo tutti sperato fino all’ultimo che il film vincesse. Come ti senti tu?
Prendo ispirazione dalla frase di Robert Louis Stevenson: “Il nostro compito al mondo non è riuscire, ma fallire nelle migliori condizioni di spirito possibile”.
Otto anni dopo essere venuto qui, candidato agli Oscar per il film La Grande Bellezza, cos’hai trovato di diverso?
Rispetto a otto anni fa è stata un’edizione sottotono, ma penso che sia fisiologico dopo quello che il cinema ha vissuto in questi ultimi due anni. La pandemia ha inciso, tutto mi è sembrato meno efficace e attrattivo. E anche i film sono meno dirompenti.
In che cosa eri diverso tu ieri, rispetto al Sorrentino di otto anni fa, qui agli Oscar per la Grande Bellezza?
Si è più grandi, oggi so come funziona il meccanismo. L’altra volta coglievo i lati della bellezza dell’evento, oggi ho colto i lati più ironici, che mi aiutano a fare questo lavoro. Oggi so guardare le cose con un certo distacco, e ho la capacità di saper prendere in giro. Molte cose oggi mi fanno sorridere.
Per esempio?
Lasciami qualcosa per scrivere un libro tra vent’anni. Questa è una manifestazione in cui succede di tutto mentre consegnano un premio.
Come miglior film ha vinto Coda (in Italia si chiama I segni del cuore ed è visibile su Now e Sky). Tu a chi avresti dato la statuetta?
A Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson.
Di Coda, il film vincitore, che ne pensi?
Non farmi fare il critico. Avrei fatto vincere Licorice Pizza, il film che mi è piaciuto di più. Mi piace parlare dei film che mi travolgono, non degli altri. Licorice Pizza è dirompente.
Stai già pensando al futuro e al progetto di cui si era parlato, quello di un tuo film in America?
Adesso riposerò. Dopo sette mesi di campagna per l’Oscar, ho bisogno di staccare e non pensare solo a lavorare. Sono contento, sia ben chiaro. Il mio era un piccolo film, e invece ha fatto molta più strada di quello che si poteva immaginare. Qui negli Usa tutti i registi vivono l’essere nella cinquina come una vittoria, e nessuno si lamenta se non vince. È meraviglioso che questo film abbia fatto tutto questo cammino.
Negli Stati Uniti sanno essere più sportivi?
È un gioco, ma certo, se non si vince ci si rimane male. Ci sta. A parte che io avevo capito già da qualche mese che non c’erano speranze. Conosco la procedura di entusiasmo intorno a un film, e l’ho riconosciuta qui, intorno a Drive my car, che è un film bellissimo che meritava di vincere. Essere tra i primi cinque è una vittoria, perché ha un forte peso nel lavoro del futuro. Significa poter porre maggiori condizioni nei progetti che arrivano.
Puoi essere più preciso sul progetto americano con Jennifer Lawrence di cui si è parlato?
Ho già risposto, ora mi riposo. A me interessa solo fare bei film e belle storie. Lavoro su tanti progetti contemporaneamente. Il problema più importante, come sapete, è trovare il danaro per fare i film. È tutto in piedi, e tutto non lo è. Non ho fretta, sono grandicello e so che è importante fare i film con calma e diradare le presenze. Contano le storie non la fretta.
Hai postato sui social una foto di te bambino con tua madre. E hai scritto che dopo due anni il percorso del tuo film è arrivato al capolinea.
Sì, è l’approdo di un percorso, i film durano tanto – ideazione, creazione, produzione, promozione - ma poi devono finire. L’avventura di questo film è finita qui a Los Angeles. Il suo percorso l’ha fatto egregiamente.
Del tuo attore Filippo Scotti, che cosa hai apprezzato in questo contesto?
La ventata di divertimento, mi piace vedere come si muove. Con grande velocità ed entusiasmo.
Ne avevi di meno tu?
Assolutamente no, sono entusiasta di questa esperienza, sono stati mesi intensi e bellissimi condivisi anche con grandi colleghi come Alfonso Cuaron, Guillermo del Toro, Julian Schnabel. Un’avventura meravigliosa di cui ringrazio Netflix, partner che si è comportato con grande serietà, portando il film ovunque.
Tra i grandi, anche Robert De Niro ha scritto un pezzo sul tuo film, elogiandolo.
Io sono cresciuto con lui, Al Pacino e Francis Ford Coppola, è stato emozionante.
“Non ti disunire” dice il regista a Filippo Scotti, nel tuo film. Ti senti disunito oggi?
Non darei troppo peso a quella battuta, che nasce da un gioco in sala di montaggio col mio montatore. Lui mi dice quella frase quando mi distraggo perché mi annoio, quando deraglio e penso ad altro. L’ho presa in prestito. È un modo per dire, “stai concentrato”. Non sono disunito mai (ride, ndr). A parte ora che torno in Italia e mi riposo.
Ti abbiamo visto sfilare sul red carpet con una coccarda gialla e blu sulla giacca, i colori dell’Ucraina. Che sentimenti avevi?
Provavo sentimenti contrastanti. Non era il momento ideale per gli Oscar, per me è stato imbarazzante. Ma la vita funziona così. Forse questa guerra è anche una questione legata alle distanze, e gli americani non la vivono come noi. La coccarda era un simbolo, mi sembrava doverosa.
Da qualche giorno qui a Los Angeles ho notato molte dimostrazioni per l’Ucraina. Inoltre molte star internazionali (Di Caprio, Sean Penn, Mila Kunis per dirne alcune) si sono esposte e hanno raccolto fondi, a differenza delle nostre italiane che tendono a non esporsi mai troppo politicamente.
Ti fermo subito, io a malapena riesco a parlare di cinema. Se mi vuoi far parlare d’altro hai sbagliato persona. Da cittadino sono contro la guerra, come tutti. Come la maggior parte delle persone ragionevoli. Trovo che sia una cosa superata dalla storia, ed è paradossale che si stia facendo.
Non volevo irritarti.
No, ma sono sufficientemente grande da non farmi tirare dentro le polemiche che si vedono in televisione. Preferisco parlare di cinema.
Quanto pesa il politicamente corretto nell’assegnazione degli Oscar?
Non lo so, sono lieto che mi diate questa grande responsabilità di parlare d’altro che non sia cinema. È ovvio che il politicamente corretto per la libertà d’espressione artistica è un fardello. In che misura incide sui premi… non lo so, non è che conosco così bene gli Stati Uniti. Io vivo a Roma e in Italia. In generale però il politicamente corretto per l’arte è un problema. Per me l’arte migliore nasce sempre da un intento di scorrettezza.
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