La malattia neurologica, oggi ancora incurabile, colpisce 10 milioni di persone nel mondo. Le diagnosi raddoppieranno entro il 2040. Ma la ricerca avanza e le speranze crescono. Intervista al neurologo Michele Tagliati, che a Los Angeles dirige uno dei centri di ricerca e cura più avanzati al mondo
Sembra una data come un’altra. Ma per circa 10 milioni di persone nel mondo l’11 aprile è stata la giornata internazionale del problema che gli ha sconvolto la vita: il Parkinson. La malattia neurologica che sta crescendo più velocemente sul pianeta, dato l’aumento della vita media, e si prevede che il numero di diagnosi raddoppi entro il 2040. Una tremenda sfida sociale.
Difficile scrivere di Parkinson senza diventare subito ansiogeni. Ma il neurologo italiano Michele Tagliati è autore di un libro dall’approccio rigoroso ma rasserenante, Parkinson’s Disease for Dummies. Vice primario di neurologia al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles (tra i centri più avanzati al mondo), ne dirige il Centro di ricerca e cura del morbo di Parkinson: la persona giusta cui chiedere come affrontarlo. E perché, ancora oggi, questa malattia è incurabile.
La genesi incerta
«La verità è che tuttora non capiamo bene, come comunità scientifica, da dove viene. Abbiamo molte teorie: alcune implicano predisposizioni genetiche, altre insulti di tipo ambientale come pesticidi e agenti chimici. L’invecchiamento ha un ruolo fondamentale, e alcune condizioni abbastanza comuni (obesità, diabete, ipertensione) ne aumentano il rischio.
Nel 10-20 per cento dei pazienti riconosciamo fattori genetici decisivi per lo sviluppo della malattia: anche se non esiste un gene del Parkinson, alcune varianti genetiche sono associate a rischio altissimo. Di fatto, non sappiamo quale sia “La” causa del Parkinson, così per ora non abbiamo “La” cura: se non sai a cosa sparare è difficile cogliere il bersaglio. Attenzione, però: possiamo trattare i nostri pazienti per un periodo anche molto esteso. Non è inconsueto averne con un’aspettativa di vita di 30 anni e più».
Si può fare molto, assicura Tagliati. Trattare la malattia efficacemente, perlomeno negli stadi iniziali, con somministrazione di prodotti dopaminergici. «Uno dei tratti principali è la degenerazione del sistema dopaminergico: il cervello non riesce a sintetizzare dopamina normalmente. I principali sintomi motori (tremore, rigidità muscolare e particolare lentezza dei movimenti) vengono molto migliorati da queste medicine, soprattutto se prese regolarmente».
Dopo almeno 5 anni, però, la risposta comincia a essere più debole e la dose va incrementata. Non basta: i pazienti hanno anche problemi non motori, per esempio disturbi di sonno, memoria, ansia, depressione, e una pressione arteriosa “ballerina”, troppo alta in posizione supina e troppo bassa quando ci si alza in piedi, causando sintomi di capogiro, persino svenimenti.
«Esistono 30 possibili sintomi non motori, che a volte si presentano prima della diagnosi e spesso peggiorano il quadro clinico in modo più grave dei classici sintomi motori. Anche se siamo così bravi da affrontarli tutti, la malattia progredisce e la risposta alle medicine diventa erratica. Fortunatamente, per una buona percentuale di pazienti abbiamo terapie più avanzate: chirurgia (Deep Brain Stimulation), ultrasuoni focalizzati, terapie infusionali (si può somministrare Levodopa in più modi).
Le terapie
Attualmente, la terapia avanzata più efficace è la Deep Brain Stimulation (Dbs): consiste nell’impiantare nel cervello fili elettrici collegati con un pacemaker, che permette di erogare impulsi che interrompono quei circuiti anomali causa dei sintomi del Parkinson. Lo chiamiamo “il pacemaker del cervello”.
È come rimettere l’orologio indietro di anni, il controllo dei sintomi, almeno motori, è estremamente efficace. Due avvertenze, però: bisogna procedere con una chirurgia cerebrale, quindi non si possono escludere danni vascolari (un’emorragia è rara ma possibile); e, per quanto a volte quasi miracolosa, non ferma la progressione della malattia».
Esistono però molte linee di ricerca scientifica promettenti, prosegue Tagliati. Alcune mirano a trattamenti più efficaci e duraturi, altre indagano i sintomi premonitori. «Ce ne stiamo occupando anche al Cedar-Sinai: perdita dell’olfatto, costipazione, alcuni disturbi del sonno possono preannunciare l’inizio della malattia nell’arco di 5/10 anni: vuol dire che abbiamo 5/10 anni per cercare di fermare il processo. Nella ricerca, anche farmacologica, su come trattare la progressione, si cerca di sfruttare ciò che abbiamo imparato da alcune variazioni genetiche: sappiamo quali enzimi e proteine ne vengono influenzati. Se abbiamo una concausa della malattia, possiamo sperare di riuscire a riequilibrare il problema e rallentarla, forse bloccarla. Ci sono poi studi basati su ciò che sappiamo succedere nel cervello dei pazienti: i corpi di Lewy, aggregazioni proteinacee (soprattutto Alfa-sinucleina), sono oggetto di enorme attenzione, perché è possibile causino la morte di cellule cerebrali. Si cerca di bloccare queste proteine con i loro anticorpi».
I trial clinici
Al Cedar-Sinai sono in corso diversi trial clinici, alcuni dedicati alle fasi preliminari della malattia (non si ha il Parkinson, ma abbastanza sintomi da preoccuparsi).
«Studiamo il sistema noradrenergico, ma non tralasciamo studi farmacologici sugli anticorpi anti sinucleina e su dopaminergici di nuova generazione. Interessante anche la ricerca su farmaci antinfiammatori: l’ipotesi è che il Parkinson possa derivare da stati infiammatori cronici sfociati in neurodegenerazione. «Stiamo sperimentando farmaci capaci di agire nel sistema nervoso centrale e ridurre infiammazione e progressione della malattia. In alcuni casi, persino gli antidiabetici sembrano avere qualche effetto. In generale non guardiamo più solo al sistema dopaminergico: la comunità scientifica oggi sa che deve allargare gli orizzonti».
La prevenzione
Lo stesso paziente può fare molto: lo stile di vita ha grande influenza nel prevenire e trattare il Parkinson. Tre elementi sono fondamentali, spiega Tagliati: 1) esercizio fisico intensivo, che riduce in generale il rischio di ammalarsi di Parkinson e consente a chi ne è affetto di rallentare la progressione; 2) attenzione a qualità e durata del sonno, perché la maggioranza delle persone con Parkinson dorme molto male, si sveglia più volte, col risultato di soffrire di giorno di stanchezza cronica, problemi di concentrazione e memoria, mal di testa, depressione («Molti non vogliono prendere farmaci, ma cosa è peggio, non dormire o prendere una medicina che permette di farlo? Non dormire per mesi ha effetti devastanti sulla qualità delle funzioni cerebrali»); 3) alimentazione: sembrano predisporre al Parkinson o peggiorarlo cibi come latte, latticini, formaggi, yogurt, carne (il pesce invece è consigliato) perché la sua assunzione pare correlata a variazioni del macrobioma intestinale, fritti, bibite gasate. «Ai pazienti dico: se limitate queste 4 categorie di cibi vi fate un favore. I dati sono convincenti. Investite in comportamenti che nel lungo termine possono aiutarvi moltissimo».
L’atteggiamento mentale del paziente ha un ruolo attivo importante. La disciplina nel prendere le medicine e seguire costantemente certi stili di vita paga moltissimo. Dà risultati che possono essere eccellenti. «Un buon paziente è un maratoneta: uno capace di immaginarsi 42 chilometri dopo. È come investire nel mercato: mettiamo i soldi lì e i risultati li aspettiamo non per la settimana successiva, ma dopo 10 o anche 20 anni. Per questo dico sempre ai miei pazienti: “Tra qualche anno guarderemo insieme al passato e penseremo: “che bel lavoro abbiamo fatto”».
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