Continua con la sua 32esima puntata la rubrica “Politica resiliente” curata da Avviso Pubblico, l’associazione nata nel 1996 per riunire gli amministratori pubblici che si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica.


Sono state invisibili per molti anni ma le inchieste giudiziarie hanno dimostrato che sono penetrate a fondo nel tessuto economico di una regione che tutti ipotizzavano fosse sostanzialmente sano. I clan non hanno alcun confine, se non quelli costruiti con pazienza dalla società civile e dalla politica.

E mentre nei prossimi anni Bologna vedrà arrivare oltre tre miliardi e mezzo di euro tra Pnrr e fondi strutturali, contemporaneamente aumentano del 120 per cento (in controtendenza col resto dell’Italia) le interdittive antimafia nella regione, i sindaci della città metropolitana firmano un Patto per la legalità.

Angela Di Pilato, assessora alla Scuola del comune di Valsamoggia e coordinatrice di Avviso Pubblico per l’area metropolitana di Bologna, spiega al Domani la strategia per prevenire le infiltrazioni mafiose. La pioggia di quattrini che si abbatterà da qui a poco dovrà ridisegnare il territorio, mettendolo al riparo dai clan: «È cresciuta la consapevolezza del pericolo mafioso e lo dimostra il fatto che si costituiscano dei tavoli permanenti per la legalità come il protocollo che abbiamo da poco firmato: un patto tra soggetti istituzionali orientato a costruire progettualità che vanno dal riutilizzo dei beni confiscati alle cosche, fino alla formazione per il personale e quindi un lavoro sul cambiamento culturale».

Sorvegliati speciali del patto sono i fondi del Pnrr. Conteso tra spinte di semplificazione procedurale, sospettate di fare da apripista a interessi opachi quando si parla di assegnazioni rapide e dirette. E procedure più stringenti che invece agitano gli animi più riottosi ad una burocrazia letargica. Sta di fatto che i timori di un’aggressione dei gruppi criminali sono più che fondati.

La mafia degli affari fa registrare un’impennata preoccupante di interdittive. Segno che i clan sono profondamente radicati nell’economia locale. E anche che quell’area grigia fatta di colletti bianchi al servizio dei capibastone cresce e occupa molte società operanti nel territorio.

«Le risultanze processuali mi consentono di ritenere che il distretto Emilia-Romagna è madre adottiva delle mafie», chiarisce in apertura dell’anno giudiziario il procuratore generale a Bologna Lucia Musti. Matrigna perfida come Grimilde, il tormento di Biancaneve, con lo specchio taroccato a riflettere una realtà alterata.

Secondo l’ex procuratore antimafia Franco Roberti la regione ha sofferto per molto tempo della sindrome di Grimilde, al limite del negazionismo quando si trattava di ammettere che i clan avevano occupato aziende e amministrazioni pubbliche. Da lì il nome al processo Grimilde contro la ‘ndrangheta a Brescello (unico comune dell’Emilia-Romagna sciolto per mafia), dove Avviso Pubblico si è costituita parte civile, vedendosi riconosciuta parte lesa.

L’inchiesta Aemilia

Ma c’è un prima e un dopo nella coscienza antimafia della regione. È lo scoppio dell’inchiesta Aemilia. Nella notte fra il 28 e il 29 gennaio 2015 scatta l’operazione che porta all’arresto di 240 persone fra Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia.

È probabilmente il più grande processo alla ‘ndrangheta del nord Italia. A cascata si aprono altre inchieste e altri processi: Aemilia bis, Aemilia ’92, Reticolo, White List, Octopus, Grimilde, Billions, Perseverance. Ma le radici delle mafie nel territorio sono più antiche. Risalgono agli anni ’60 quando la legge sul soggiorno obbligato porta nuovi residenti. Sono uomini comuni, soldati semplici, affiliati e anche boss: nascono i clan replicanti, cloni delle articolazioni originarie.

Il patto

Oggi nessuno può più dire di non sapere. Le amministrazioni locali hanno gli occhi bene aperti e sono consce del pericolo che si nasconde nel rapporto inconfessabile tra politica e imprenditoria mafiosa. Il protocollo appena firmato lo conferma. A firmarlo sono la città metropolitana di Bologna, il comune di Bologna, la prefettura di Bologna, l’università di Bologna e poi la Camera del lavoro metropolitana Cgil di Bologna, la Camera del lavoro territoriale Cgil di Imola, Cisl Area metropolitana Bolognese, Uil Emilia Romagna, Libera Bologna e la rete dei comuni di Avviso Pubblico che gravitano intorno all’area metropolitana.

Un’articolazione di istituzioni, università, enti locali, associazioni sindacali e sociali, che insieme provano a presidiare gli oltre tremila e settecento chilometri quadrati di territorio tra i più economicamente vivaci d’Italia. Attraverso la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza attiva.

«Ma anche lo scambio di buone pratiche amministrative e lo sviluppo di progettualità comuni tra gli enti dell’area metropolitana. Il documento – dice l’assessora Angela Di Pilato – testimonia l’esistenza di fatto di una rete che inizia ad essere sempre più solida e che punta a crescere ancora. È uno strumento forte di condivisione, ma è anche un modo per non far sentire soli gli amministratori in determinate situazioni».

Ma come funziona nel concreto? «Se ad esempio un piccolo comune dell’area metropolitana non ha la forza di realizzare un progetto importante sul riutilizzo di un bene confiscato – spiega Angela Di Pilato –, allora si attiva la rete per il supporto necessario. Può capitare ad esempio un problema di caporalato. In quel caso ci sono i sindacati o la Prefettura. Ma anche la stessa Università per lo sviluppo di progettualità di contrasto allo sfruttamento del lavoro. Insomma, l’attivazione della rete rende più agevoli compiti che a volte sono una sfida impegnativa soprattutto per i comuni più piccoli. E ancora la condivisione delle informazioni per la costruzione dei piani triennali anticorruzione: confrontarsi a vicenda può essere utile».

Un modello che arriva da lontano: il primo protocollo è del 2019 in materia di appalti, forniture e servizi; poi quello del 2021 che coinvolge la Regione, resi possibili dalla legge regionale 18 del 2016 per la prevenzione del crimine organizzato e mafioso. E ora che vuole colmare una distanza più mentale che fisica, tra realtà che di fatto condividono lo stesso lembo di terra.

Ma c’è di più. Angela Di Pilato è convinta che questa esperienza sia destinata alla replicabilità, con le dovute declinazioni territoriali. «Una Città metropolitana è un insieme di comuni a volte anche molto piccoli. Non è difficile immaginare che questa esperienza possa essere ripetuta in altri contesti in giro per la stessa regione o anche per il resto del territorio nazionale. Se si vuole mettere un argine alle mafie, dire loro “di qui non passi”, bisogna mettersi insieme» e creare quella legalità organizzata necessaria a non restare soli.

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