Più di un secolo di calcio ci dice che per andare in porta serve essere un po’ Yanez, un po’ San Sebastiano. La corda pazza ce l’hanno tutti, poi c’è chi la declina in silenzi e dimissioni sciasciane come Dino Zoff, chi in esplicitazioni clownesche come Bruce Grobbelaar e chi in gol come Ivan Provedel
Il portiere è il principio, lo scarto, la maglia differente, quello che la può prendere con le mani – sempre meno – avvolte dai guanti come Burt Lancaster nel Gattopardo, a volte anche ballando, il limite e soprattutto la follia che sta sulla linea a sorvegliare la gabbia.
Più di un secolo di calcio ci dice che per andare in porta serve essere un po’ Yanez, un po’ San Sebastiano, un po’ Petit o per dirla in un tweet: un Lama salgariano. Pazienza e audacia. La corda pazza ce l’hanno tutti, poi c’è chi la declina in silenzi e dimissioni sciasciane come Dino Zoff, chi in esplicitazioni clownesche come Bruce Grobbelaar e chi in gol come Ivan Provedel.
Ci sono quelli che incarnano un mondo politico come Lev Yashin – quello sovietico – e quelli che incarnano un mondo letterario – il realismo magico – come René Higuita. Ci sono i tristi come Giuseppe Moro, gli esuberanti come Hugo Gatti ed Enrico Albertosi e i cuori allegri come Thomas N’Kono. Un portiere ha sempre una favola da raccontare, e prima di raccontarla se la ripete.
Negli stadi svuotati dal Covid scoprimmo che Gigi Buffon – uno dei più bravi del secolo – telecronizzava la partita che giocava, stando a metà tra il rosario e il ciottismo (racconto rauco con precisione leopardiana). C’è chi dice è la solitudine, chi l’attesa, un portiere aspetta i tiri come noi aspettiamo i tram. E negli ultimi anni è il ruolo che si è trasformato di più, tanto che alcuni sembrano specie a disagio sulle zattere provvisorie che sono le aree di rigore dopo il cambio delle regole.
Gigi Donnarumma, un Carnera che va in porta, soffre moltissimo i palloni – sempre più numerosi – che deve giocare con i piedi, motivo anche della sfiducia da parte del nuovo allenatore del suo Paris Saint-Germain, Luis Enrique; e la sua grossa taglia si fa piccola ogni volta che riceve un retropassaggio, come l’esile Meret che pure soffre, silenzioso, da bravo friulano, una rondine sul filo.
Di chi è la colpa
Poi diverrà pure una malattia professionale. È facile immaginarli sdraiati dall’analista i portieri: «Quando è cominciato tutto questo?». «Col divieto di prenderla con le mani e l’imperativo di impostare». La porta è il problema. Il portiere l’ultima risposta.
E tutto cambia rapidamente, in un giro di campo si passa da eroe a meme: si veda la storia dello sciagurato Onana e del suo passaggio al Manchester United. Ieri parava l’impossibile, oggi perde palloni come chiavi di casa. Perché un portiere deve avere la tenuta mentale di un tennista, quindi dovrebbe giocare anche a scacchi. Oggi che gli allenatori chiedono al folle di ragionare e impostare, il portiere si distrae, non deve solo allenare gli addominali e i dorsali, ma anche mettere in moto l’azione dal basso.
Il nemico è Ricardo La Volpe, ex portiere argentino. La “Salida LaVolpiana”, che chiama in causa il portiere come regista arretrato costringendolo agli straordinari perché le squadre invece di lanciare palleggiano nell’area, con i centrocampisti che si mettono a fare i giocolieri col pallone, sembra una vendetta contro la noia patita in porta negli anni passati. È di un vecchio portiere la colpa della dannazione dei nuovi portieri. Che, per un paradosso, racchiude una regola che tutti i portieri conoscono: le insidie sono ovunque, soprattutto nei piedi dei compagni di squadra, perché da quelli non te le aspetti.
Per Stefano Tacconi, succeduto a Zoff alla Juventus, con rammarico di Gianni Agnelli, è tutta colpa di Arrigo Sacchi e Zdeněk Zeman padri estremisti del palleggio e delle verticalizzazioni col gioco a tutto campo e i portieri ridotti a braccio da flipper. Prima si poteva lanciare il pallone «alla viva il parroco», come diceva Manlio Scopigno, filosofo almeno quanto Gianni Vattimo, ramo hegelismo di fascia, ora no, chi lo fa appare un rozzo; al portiere si chiede d’essere regista e uomo in più.
Anche questo un ruolo filosofico, prima in porta si poteva avere il lusso della timidezza (Giuliano Giuliani) o della stravaganza (Cláudio Taffarel che conservava il posto a Dio ovunque), si poteva evitare d’essere nicciani (Giuliano Terraneo scriveva tenere poesie), ora no, è richiesta la visione d’insieme e la leadership dei piedi, meglio se entrambi. Il portiere deve essere disinvolto, dove prima poteva starsene in disparte e fumare persino, come Jacques Tati.
Simile a noi
Ma poi il pallone ha preso a scottare, perché ogni azione diventa un possibile involontario rigore. Per questo il portiere è un ruolo perfetto per l’immedesimazione, la sua precarietà è la nostra nella vita lavorativa. Le sue esitazioni sono le nostre nell’ambito amoroso.
Non è un caso che nel Novecento siano stati portieri Karol Wojtyla, Ernesto Guevara e Albert Camus, tra gli altri: un papa forte, un rivoluzionario eterno, uno scrittore intramontabile. Perché avevano sofferto sulla linea di porta, il resto veniva facile: encicliche, guerriglie e romanzi, sciocchezze dopo aver parato un rigore anche in un cortile.
La lotteria dei rigori, direbbe Bruno Pizzul, ecco, annoso problema. C’è chi li tirava e bene come Higuita e Chilavert che poi si allungava anche a calciare e segnare le punizioni, ma in Sudamerica i portieri amano allontanarsi dall’area e dal ruolo, e chi li parava bene: il nostro Francesco Toldo o l’argentino Emiliano Martínez.
Il rigore è un plotone d’esecuzione, andrebbe chiesto a Fedor Dostoevskij come sopportarlo, per questo ne ha scritto Peter Handke, da lui potremmo far nascere la grande tradizione dei portieri tedeschi: qualcosa a metà tra la puntualità dei treni e la prestanza di Terminator: da Schumacher a Neuer, da Maier a Kahn fino ad arrivare alla porta di ter Stegen.
Mappa sentimentale
Si potrebbe disegnare una mappa sentimentale per portieri paese per paese? Sì. “La vita segreta dei portieri”. La potenza dei tedeschi. L’eleganza malinconica degli spagnoli: da Zamora a Zubizarreta da Casillas ad Arconada.
L’Inghilterra, invece, ha nei portieri il tallone di Banks, dopo Gordon son stati tutti villani, sfortunati o improbabili, col povero Peter Shilton che ciclicamente si inventa qualcosa contro Maradona, che lo umiliò due volte: per cielo e terra, per rispondere all’umiliazione via mare subita dagli argentini nella guerra delle Malvinas.
I portieri francesi sono recenti, non che prima giocassero senza, ma è dagli anni Ottanta che il livello è andato salendo fino a rafforzarsi nella multietnicità: quindi se Joel Bats comincia il ruolo, Fabien Barthez lo valorizza è Maignan che lo rende una sicurezza. E per mancanza di sicurezza è stato processato in ogni piazza, strada, cortile, favela, Moacir Barbosa perché ritenuto responsabile della sconfitta del Brasile ai mondiali in casa del 1950.
Perché il portiere, vecchio o no, è sempre un monsieur Malaussène. È Ettore e Achille insieme. Deve soccombere. Perciò quando Provedel, o prima Amelia o Brignoli, abbandonano l’area per l’altra area diventano pistoleri del West, attraversano frontiere fordiane, e segnando a un loro simile, allontanano quella stessa sofferenza che infliggono: un dramma di Ionesco.
© Riproduzione riservata