Rudi Garcia a Napoli ha rimesso la tristezza al centro del villaggio. In tre mesi ha demolito la cattedrale di bellezza e felicità calcistica che aveva avuto tre architetti: Rafa Benitez e Maurizio Sarri prima, che avevano alzato gli architravi, e Luciano Spalletti che ha progettato la cupola, affrescato il soffitto e messo le porte, con due incidenti di cantiere: Carlo Ancelotti e Rino Gattuso. Poi è arrivata la demolizione della felicità da parte di Garcia, il picconatore.

Doveva essere un glossatore di Spalletti, almeno tutti lo avevano immaginato così, e invece s’è messo a picconare. A Napoli, prima del suo arrivo, si rideva segnando e anche solo palleggiando: Khvicha Kvaratskhelia dribblava selvaggio portando lo stupore e il suo calcio sulle pagine del New York Times; Osimhen tirava e segnava mettendosi in scia di uno come Haaland; e Lobotka era il loro cervello: un Heidegger del centrocampo che evocava André Iniesta.

Napoleone

Garcia, in modo napoleonico, senza rispetto per nulla, ha messo Anguissa a pensare al posto di Lobotka, ha sostituito Kvara con Zerbin o non l’ha fatto giocare, ma soprattutto ha tolto i palloni ad Osimhen che ora vaga per i campi come un orfano dickensiano per Londra. Il risultato è un Napoli triste, invecchiato, distrutto.

Con una linea difensiva incerta, che ha perso il sudcoreano Kim, divenuto una certezza adottata dalla Bundesliga, e ha acquistato il brasiliano Natan che rimane una incognita, anche perché non gioca. È evidente che Garcia – arrivato dopo una ricerca da talent e diversi no – era l’ennesimo colpo di scena nella sceneggiatura di Aurelio De Laurentiis che lasciava partire un uomo allegro e innamorato al punto di tatuarsi Napoli sul braccio, Luciano Spalletti, per prenderne uno immusonito e algido, di ritorno dall’Arabia Saudita, in pratica ha preso quello che andava contromano sperando che i pazzi fossero gli altri. E tutti, dietro gli schermi dei pc, han pensato: dopo l’estate scorsa che abbiam detto quarti meglio dire primi di nuovo.

Non guardando al passato: dopo Juventus, Milan e Inter solo il grande Torino riuscì a rivincere lo scudetto per due anni di fila. Questo dato doveva far pensare, insieme all’aver portato tre calciatori nell’elenco del Pallone d’Oro: Kim, Kvara e Osi.

Uno scippato dal Bayern Monaco e due che probabilmente resteranno solo per questa stagione, visti gli assedi arabo-inglesi. Adesso giocano in una squadra dove l’allenatore dà l’impressione di sopportarli, mentre la città aspettava di rivederli giocare felici.

Garcia sembra viverli con fastidio e volersi smarcare con forza dallo spallettismo, che ci starebbe pure, ma in ogni restaurazione postrivoluzionaria si parte dal sentire comune, e quello napoletano passava e passa per la bellezza e la felicità pallonara, e no, non voleva smettere di divertirsi. Il palleggio napoletano – divenuta una specialità della casa come se Napoli fosse la Catalogna o l’Olanda – appare distrutto dal lancio lungo che non porta da nessuna parte.

Le verticalizzazioni di Garcia sono rette che non vanno in porta, contro il Genoa, l’altra sera, il Napoli ha tirato in porta solo al settantesimo, e se non bastasse poi l’ha fatto solo per altre due volte. Impensabile fino a tre mesi fa. Come era impensabile vedere il selvaggio Kvara, l’assurdo Kvara, il fantasioso Kvara – che in aereo legge Agatha Christie – sostituito con la normalità di Zerbin, tanto da dover sfoderare un gesto napoletanissimo: la mano a cono e il braccio che oscilla, un Pulcinella georgiano al “Ferraris”, che chiede: «Ma chisto che vò?». Dove chisto è Garcia. E la risposta di Napoli è: «Ah, saperlo».

Il grande freddo

L’impressione è che prima ancora della tattica, ci sia un problema umano. Rudi Garcia non s’è preso. E se dobbiamo stare allo sguardo perplesso di Kvaratskhelia verrebbe da chiedersi: come facciamo a fidarci di uomo che non si fida del colore dei suoi capelli? La fotografia della panchina del Napoli a Genova ricordava il crollo di un argine.

Giovanni Simeone sembrava voler telefonare a suo padre per chiedergli chatwinianamente: Che ci faccio qui? Mentre metà napoletani pensavano a Roberto De Zerbi con più intensità di Lele Adani e meno errori di grammatica di Antonio Cassano. Con negli occhi una Inter spensierata guidata da Barella che fa quello che a Lobotka viene impedito, e Thuram bambino infinito come Osimhen, per Kvara non c’è un equivalente, a parte Clint Eastwood nella trilogia del dollaro di Sergio Leone.

Insomma, per dirla cinematograficamente, sembra di assistere a una scena di Good Morning Vietnam quando l’aviere Adrian Cronauer (Robin Williams), speaker comico della radio, viene sostituito dal tenente Steven Hauk (Bruno Kirby) normalizzatore, che al posto di James Brown e della comicità alla Lenny Bruce che faceva stare bene le truppe al fronte, mette la polka e racconta le barzellette tristi, ricevendo lettere di dissenso e cali d’ascolto. Siam lì.

E il generale, Aurelio De Laurentiis, però, nel film stava dalla parte di Robin Williams, richiamandolo. Il punto è che De Laurentiis li richiama pure, ma gli allenatori non ritornano, perché prima li consuma. Ha richiamato sia Sarri che Benitez, e richiamerà anche Spalletti, in fondo come dice Woody Allen la comicità è tragedia più tempo.

Intanto si cominciano a vedere gli altri Napoli, i nuovi campi di felicità nel calcio e, per uno scherzo del destino o del calciomercato, hanno un attaccante nigeriano a guidarne gli assalti: Victor Boniface nel Bayer Leverkusen allenato da Xabi Alonso e Terem Moffi nel Nizza allenato da Francesco Farioli. Disegnando una linea nigeriana del gol e dell’allegria imposta con forza. Non resta che chiedere a Carlo Verdone.

È l’unica figura capace di resistere a De Laurentiis, negli anni (22). L’unico allenatore-giocatore ad attraversare i campi del tempo cinematografico come Dracula, riuscendo a sopravvivere. Carlo qual è il trucco? La pazienza tibetana che dai Lama passando per Bertolucci arriva a te? O dopo Leone e Sordi un De Laurentiis non morde?

© Riproduzione riservata