La ricerca sullo sviluppo turistico di Venezia pagata da Airbnb. Le borse di studio di Google ai centri che si occupano di ricerca su regolamentazione del digitale, compreso quello di un membro dell’authority per la privacy. Come è facile l’attività di lobbying delle big tech nel Paese dell’arretratezza della Rete.
- La spesa in attività di lobbying delle società tecnologiche è aumentata di pari passo con il crescere dell’attenzione dei regolatori nei loro confronti.
- In Italia secondo esperti, manager, professori e politici che abbiamo intervistato i giganti del web hanno trovato un Paese arretrato dal punto di vista della cultura digitale e della resistenza ai conflitti di interesse e per questo più permeabile alla loro penetrazione nel mercato.
- Gli esempi sono numerosi: da Airbnb che ha pagato per collaborare a una ricerca sullo sviluppo turistico della città di Venezia a Google che ha scelto il nostro Paese per avviare un programma di finanziamento di borse di studio per ricercatori che si occupano di regolamentazione del web
Nell’ultima estate spensierata del turismo europeo, quella del 2019, a Venezia è successo qualcosa di diverso rispetto ad altre città d’Europa. Mentre i sindaci di Amsterdam, Barcellona, Berlino, Bordeaux, Bruxelles, Cracovia, Monaco, Parigi, Valencia e Vienna scrivevano un appello alla Commissione europea per mettere un freno alle attività di Airbnb poi sposato anche dal sindaco Brugnaro, la Fondazione di Venezia ha presentato uno studio sullo sviluppo turistico della città finanziato proprio da Airbnb. Nella città che il turismo lo ama e lo odia, che se ne ingozza consumandosi, che ci vive e ci muore, il colosso degli affitti a breve termine altrove tenuto a distanza ha trovato il migliore spazio per la sua attività di lobbying. Anzi, le è stato gentilmente offerto.
Il 17 luglio del 2019 all’auditorium di Mestre è stata presentata la prima parte di uno studio pensato per indirizzare le politiche della Venezia che verrà e immaginarne un possibile equilibrio sociale ed economico. Alla ricerca, coordinata dall’ex sindaco Paolo Costa, consigliere della Fondazione di Venezia e professore di economia dei trasporti e della logistica, hanno collaborato, l’università Ca’ Foscari, Iuav, l’Università di architettura, Fondazione Cariparo e Airbnb. Le conclusioni dello studio sono spiegate chiaramente nel comunicato dell’evento: «Il boom dell’affittanza turistica nella Venezia storica è passato dal 5 al 15 per cento dal 2011 al 2017 (di cui il 13 per cento riferibili ad Airbnb)». Il fenomeno «è facilitato dalle piattaforme turistiche online, come Airbnb, ma è frutto di una scelta di destinazione del patrimonio abitativo da parte dei veneziani, il cui lato positivo è quello di aver rimesso in valore case sfitte e riattivato il commercio di vicinato, ma che, se non controllato, può costituire un ulteriore fattore di contrazione dei residenti in Venezia storica». Dunque Airbnb ha sponsorizzato una ricerca che valorizza il ruolo di Airbnb nello sviluppo turistico della città.
Il responsabile della comunicazione per l’Europa meridionale della piattaforma spiega che la collaborazione era stata richiesta dalla fondazione per «fornire dati puntuali e provare a fotografare il fenomeno della ricettività». Il problema dei dati è cruciale: la Commissione europea ha sottoscritto un accordo con le piattaforme turistiche per la condivisione delle informazioni solo a marzo del 2020, mentre prima la loro disponibilità dipendeva dalla volontà della singola azienda.
Costa dice che potevano consultare anche altri database per realizzare lo studio, ma in questo modo hanno ottenuto «dati più precisi». «Si parla sempre di Airbnb, ma in realtà il fenomeno è cominciato da prima. Abbiamo chiesto a tutti, anche a Booking ed Expedia, ma Airbnb è l’unica che ha risposto e la ricerca non ne è stata influenzata», dice il professore.
Dalla società non dicono a quanto ammontava il contratto di sponsorizzazione. Costa ha detto che è stato «un contributo finanziario di cui la fondazione ha potuto disporre in totale libertà» che corrispondeva circa «al costo di una borsa di studio». «Abbiamo chiesto i dati e abbiamo chiesto anche qualcuno per darci una mano a trattarli», ha aggiunto. Un’ottima occasione per una società che cerca consenso a livello locale. L’influenza sui decisori pubblici passa anche da studi e ricerche.
«Negli Stati Uniti il grande capitale ha un’agenda per cercare il sostegno dell’accademia», dice Tommaso Valletti, professore di economia all’Imperial college di Londra. «C’è un tentativo di influenza diretta e indiretta: diretta quando ci sono accademici che prendono soldi dalle aziende, anche attraverso conferenze o appuntamenti istituzionali, e non rivelano i finanziamenti con la scusa che fa parte del rapporto professionale. Poi ci sono operazioni indirette come i finanziamenti a ricerche o dipartimenti, che non sono un problema solo dell’industria farmaceutica o del tabacco, ma anche del big tech», dice l’esperto del settore digitale che è stato anche capo economista alla concorrenza della Commissione europea dal 2016 al 2019. Spesso sono ricerche legate all’uso dei dati che solo queste società possiedono. Secondo Valletti una ricerca basata sui dati aziendali sarà per forza biased, di parte: «Non si tratta tanto di corruzione, quanto di consentire accesso ai dati solo per affrontare determinate questioni e diffondere una posizione rassicurante sullo status quo. È come se a un giornalista venisse consentito di fare solo certe domande e non altre».
Per influenzare le scelte di chi scrive le leggi a Washington e a Bruxelles, Airbnb spende diverse centinaia di migliaia di dollari. Apple, Amazon, Facebook e Alphabet, l’azienda che controlla Google, viaggiano nell’ordine dei milioni. Considerata la potenza di risorse a disposizione di big tech sono investimenti perfino modesti. La loro capacità di influenza è cresciuta assieme al controllo delle quote di mercato e alla loro capitalizzazione. Mentre la loro spesa in attività di lobbying è aumentata di pari passo con il crescere dell’attenzione dei regolatori nei loro confronti. Per molti anni, l’obiettivo delle società che hanno conquistato e cambiato la rete è che i governi si occupassero di loro il meno possibile. Nel 2010 il colosso mondiale del commercio online fondato da Jeff Bezos contava solo due lobbisti registrati al Congresso degli Stati Uniti, ricorda il Washington Post, il quotidiano che Bezos ha acquistato nel 2013; ora che, come le altre corporation, sono scese nell’agone pubblico e combattono per creare un ecosistema accademico e istituzionale favorevole, lo fanno con una capacità di spesa difficilmente eguagliabile. Il valore delle prime quattro società di tecnologia americane supera i cinquemila miliardi di dollari. Alphabet ha oltrepassato i mille miliardi di dollari di capitalizzazione, il Pil prodotto in un anno dall’Olanda. Amazon vale più di 1.500 miliardi, il Pil prodotto in un anno dalla Spagna. Apple ha raggiunto i 2mila miliardi, il Pil annuale italiano. Solo nel luglio 2019, dopo centinaia di acquisizioni il dipartimento di giustizia americano ha aperto un’indagine antitrust nei confronti dei quattro colossi. Non a caso nel 2018 e nel 2019 le spese di Alphabet e Facebook registrate dal Center for Responsive Politics hanno segnato un picco rispettivamente a 21,7 e 16,7 milioni di dollari.
Nella capitale dell’Unione europea, Transparency international calcola che dal 2014 al 2019, gli anni del primo mandato della commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager, gli investimenti in lobbying del settore digitale sono più che quintuplicati. Secondo l’ultimo aggiornamento del registro per la trasparenza dell’Unione, nell’ultimo anno Google ha speso in lobbying oltre otto milioni di euro e ha partecipato a 349 incontri con la commissione aggiudicandosi il primo posto per interventismo tra le aziende davanti a Microsoft, Bayer ea Facebook Irlanda.
L’entrata in scena di Amazon
Per l’Italia, periferia politica e culturale dei mercati digitali, non abbiamo cifre precise sul lobbying delle grandi aziende tecnologiche. Si parla di numeri ridotti. Se si considera la categoria ampia del marketing e comunicazione, Airbnb conta una squadra di 25 persone, ma restringendo il campo alle relazioni istituzionali colossi come Amazon si affidano ad appena due persone. La prima apparizione di Amazon sulla scena della politica italiana risale al 2015, durante un convegno organizzato alla Camera dei deputati da Antonio Palmieri, parlamentare di Forza Italia, già manager di Fininvest e responsabile Internet del partito di Silvio Berlusconi dal 1995. Palmieri è uno che ha capito prima di molti altri la centralità del web ed è un instancabile organizzatore di i convegni.
«Nella scorsa legislatura ho organizzato 61 eventi pubblici, ho fatto anche il parlamentare, basta guardare gli atti, ma ritengo che questo sia un modo contemporaneo di farlo: portare dentro al parlamento quelli che hanno qualcosa da dire», spiega rivendicando gli incontri sui temi più vari, dall’e-commerce ai videogiochi, dai social media alle tecnologie per la disabilità: «Ho avuto Google, Facebook, Microsoft, eBay, ho invitato tutti e sono stato invitato a eventi organizzati da loro, per esempio Google mi ha raccontato in anteprima la loro politica della privacy», dice. E però in tutti questi anni, tra ospiti grandi e piccoli e decine di incontri, non ha mai invitato, per esempio, i critici di Google sul tema dell’antitrust, che è diventato il vero cuore del dibattito sul digitale a livello globale: «Io invito, non faccio tribuna politica, gli ospiti non devono avere timori di cadere in trappola, non ho voluto scientemente chi contesta Google», risponde Palmieri. «I grandi problemi sono sotto gli occhi di tutti, mi sentirei un po’ sciocco a pensare di potere essere io a risolvere il problema della concorrenza di Google o la web tax. Io sono solo un deputato di un paese minore: non sono in nessun tavolo, non faccio parte del governo delle istituzioni europee, la megalomania non mi appartiene. Se lo pensassi dovrebbero aprire un posto in manicomio».
Intanto il convegno organizzato da Palmieri ha segnato una svolta per Amazon Italia: «Prima di allora eravamo defilati», dice l’ex country manager Martin Angioni. «Visto che le regole e la regolamentazione fiscale sull’e-commerce non c’erano, la cosa migliore era che lo sguardo della politica verso di noi fosse spento. Ma l’accoglienza istituzionale è stata calorosa. Arrivavamo a portare lavoro e nessuno allora calcolava gli effetti dell’efficienza di Amazon. Nessuno considerava che dove i negozi impiegano in media settanta, ottanta addetti, la grande distribuzione ne impiega circa cinquanta e l’e-commerce solo 15». Per le piccole e medie imprese e l’export italiano era un’occasione. Allora Amazon non aveva nemmeno un addetto alle relazioni istituzionali in Italia, c’era un responsabile unico per l'Europa, Andrew Cecil, che nel 2012 era già stato chiamato a rispondere sulle ipotesi di evasione fiscale dalla commissione sui conti pubblici della Camera dei comuni inglese. Le sue risposte erano state talmente elusive che la presidente, Margaret Hodge, lo aveva liquidato con poche parole: «È scandaloso. Abbiamo una commissione molto impegnata, ma ci assicureremo di ottenere risposte e convocheremo una persona seria». Angioni invece di risposte ne ha date fin troppe: a margine del convegno di fronte alla telecamera di Presa Diretta ha irriso le indagini sull’elusione fiscale della società con tanto di gesto dell’ombrello. Quella performance gli è costata il posto. Ma gli ha permesso anche di scrivere Dietro le quinte di Amazon, il libro in cui racconta dall’interno la sua esperienza nell’azienda di Bezos.
Amazon, dice Angioni, voleva agire nell’oscurità: «Ha un modus operandi da animale notturno». Del resto, spiega il manager, in Italia ha trovato un mercato quasi senza concorrenza, privo della forza di opposizione della distribuzione francese e pure di grandi magazzini generali come lo spagnolo El Corte Inglés. Persino nella vendita dei libri, il suo business originale, Amazon non ha avuto bisogno di intervenire direttamente: il conflitto tra grandi catene come Mondadori e Gems e piccoli editori le ha “regalato” la legge del 2011 che permetteva uno sconto fino al 15 per cento, il triplo rispetto agli altri paesi europei, e che è stato cancellato solo di recente. Poi c’era l’accoglienza degli amministratori: «I referenti politici all’inizio mostravano un generale entusiasmo, vedevano nei rapporti con Amazon la possibilità di acquisire lustro e immagine in un mondo nuovo». «Il nuovismo», dice l'ex dirigente, «è un’ideologia, una fiducia cieca che l'efficienza sia di per sé sinonimo di sviluppo economico generale». In un paese arretrato come l’Italia dal punto di vista della cultura digitale, big tech ha risposto a una domanda inevasa di partecipazione al progresso da parte di una ampia fetta della popolazione.
Clienti e lavoratori sulla bilancia della politica
Sul sito della Bottega d’Arte Maselli di Firenze, storici corniciai, artigiani e restauratori del legno si legge ancora oggi: «Il 5 ottobre 2015 è stato un giorno molto importante per noi: al salone dei Cinquecento in Palazzo vecchio è stata inaugurata a livello mondiale la nuova piattaforma di Amazon dedicata alla vendita di eccellenze artigiane fiorentine». Amazon ha scelto un meraviglioso palcoscenico per lanciare la nuova sezione dedicata al made in Italy del suo portale, oggi presente in cinque paesi del mondo. Andrea Ettorre, che allora curava la comunicazione del comune, ricorda: «Il sindaco Dario Nardella fece anche il primo acquisto in diretta. Fino ad allora erano pochissime le botteghe storiche che avevano uno shop online, di solito fatto in maniera artigianale dai figli. Invece Amazon organizzò con Confartigianato corsi sull’e-commerce, insegnando a usarlo meglio, per esempio spiegando quanto poteva contare la fotografia del prodotto per aumentare le vendite: fu una scoperta».
Da allora le iniziative sono state ripetute, un accordo con l’Istituto commercio estero è stato prorogato fino alla fine del 2020 e oggi duemila piccole e medie imprese italiane vendono sul portale made in Italy. Negli anni Amazon ha continuato ad aumentare gli investimenti in Italia e li ha diversificati: è nata Amazon WebService che si occupa dei servizi cloud, sono nati data center e centri di ricerca in intelligenza artificiale, ma si sono moltiplicati e continuano ad aumentare anche i centri di distribuzione e i depositi di smistamento, sempre più automatizzati. A oggi solo in logistica ed e-commerce, la filiera di Amazon in Italia dà lavoro a circa tredicimila persone, considerando anche le cooperative che ottengono gli appalti. Entro la fine dell’anno Amazon aprirà due nuovi centri di distribuzione in Veneto e nel Lazio, ma anche quattro nuovi magazzini a Genova, Brescia, Parma e Catania e un polo di smistamento a Grugliasco, nei pressi di Torino. Gli stabilimenti più all’avanguardia impiegano circa ottocento persone in meno rispetto alla prima sede di Castel San Giovanni, che risale al 2011. Sempre all’insegna di quella che Amazon chiama politica della porta aperta, che scoraggia l’organizzazione collettiva dei lavoratori a favore del rapporto tra singolo lavoratore e datore di lavoro.
Nel periodo della pandemia, mentre molti negozi sono stati obbligati alla chiusura, Amazon ha moltiplicato le vendite. «Le ordinanze con cui le regioni come la Lombardia hanno messo un freno alla distribuzione di una buona parte delle merci non toccavano l'e-commerce», spiega il segretario della Filt Cgil, Michele De Rese. I sindacati hanno chiesto misure di sicurezza e controlli, ma anche la limitazione delle tipologie di prodotti in vendita per evitare i colli di bottiglia nel lavoro legati al picco di domanda e che potevano comportare maggiori rischi di contagio. Nello stabilimento di San Giovanni ci sono stati undici giorni di sciopero. La società ha preso tutta una serie di provvedimenti a tutela della salute e anche dato la priorità alla distribuzione di alcuni prodotti, ma ha continuato a vendere tutto, mentre gli altri esercizi commerciali, anche quelli aperti, si dovevano attenere a limiti precisi: i supermercati, ad esempio, potevano vendere alimentari ma non prodotti di cancelleria. I sindacati hanno ottenuto la sospensione dell’ordinanza lombarda rivolgendosi al Tar, mentre in un caso, a Latina, in difesa delle loro ragioni è intervenuta la prefettura.
«Non ci finanziano, ma dovrebbero»
In generale, i dominatori della tecnologia hanno molti argomenti da far valere con decisori pubblici e consumatori. Offre una prospettiva di crescita economica, efficienza, comodità, occasioni di guadagno. Ma soprattutto offre una nuova cultura indispensabile per capire e affrontare il mondo: è questa che fa davvero la differenza. E se lo sviluppo di una nuova cultura è trainato da chi è in una posizione dominante, la probabilità che si levino voci critiche si abbassano drasticamente.
I colossi del digitale non hanno bisogno di molto personale distaccato per gestire le relazioni istituzionali in paesi come l’Italia. «Oggi le strategie utilizzate per fare valere i propri interessi nella grande negoziazione che è la sfera pubblica sono più raffinate di una volta», dice Pier Luigi Petrillo, professore di Teorie e tecniche del Lobbying all’università La Sapienza di Roma. «Più che intervenire con il parlamentare, si pianifica a tavolino un modo per mobilitare le coscienze delle persone, per renderli inconsapevoli attori della tua campagna, convincendoli della bontà delle tue ragioni. Sono i cittadini o gli opinion leader che fanno advocacy per te». In gergo tecnico si chiama triangolazione o uso delle terze parti: è una modalità nata negli Stati Uniti negli anni Novanta e tende a creare una cultura a favore dei propri valori e obiettivi. Lo scopo è persuadere esperti riconosciuti, che per essere efficaci devono mantenere la loro credibilità. Non c’è nulla di illegale e, anzi, è naturale che si offra il proprio contributo intellettuale a una causa che viene percepita come buona. Ma se entrano in gioco finanziamenti a studi, ricerche e progetti, è legittimo porsi questioni su possibili conflitti di interesse.
Come tante altre aziende, anche quelle tecnologiche aderiscono a think tank che possano attivare una rete di contatti o attraverso i quali possono sponsorizzare eventi o finanziare studi. Amazon ha rapporti con l’Aspen Institute. I-com, istituto per la competitività, il pensatoio specializzato in digitale, energia e innovazione fondato da Stefano da Empoli, indica come socio Google e Amazon e Facebook come partner. Amazon Web Service, Google Cloud e Google Italy e Microsoft sono soci dell’Ambrosetti club, l’organizzatore del forum di Cernobbio, l’appuntamento d’obbligo per chi si occupa di economia e finanza. La quota di associazione al club Ambrosetti non è nota, ma quella di I-com, spiega il responsabile comunicazione Andrea Picardi, è di appena diecimila euro.
Serena Sileoni, vicedirettrice dell’istituto Bruno Leoni, centro studi liberista, interpellata sui finanziamenti di Amazon e dei grandi della tecnologia, dice: «Da anni non abbiamo contatti con Amazon, non ci finanziano e invece dovrebbero perché le loro posizioni sul digitale sono naturalmente le nostre. Ci troviamo a difenderle spontaneamente perché come consumatori ci ha semplificato la vita. Abbiamo ricevuto una borsa da Google, ma è tutto pubblico. Flixibus ci ha aiutato nel finanziamento della cena annuale. Ma queste imprese fanno molta meno attività istituzionale rispetto alle loro dimensioni, non ne hanno bisogno, la loro posizione non è contendibile, loro in questo paese ci stanno ma non ci sprecano molte risorse».
Le dimensioni dei giganti tecnologici sono diventate un problema. Fino a luglio, quando la Commissione europea ha aperto un’indagine sull’acquisizione di Fitbit da parte di Google, nessuna fusione a livello mondiale è stata bloccata: «Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un lavaggio del cervello e si è diffusa l’idea che per far funzionare il mercato non bisogna interferire. I regolatori sono molto restii, si cerca il quieto vivere, pochi si sentono preparati e hanno voglia di ingaggiare un braccio di ferro, e questo è molto pericoloso perché i regolatori stanno sempre fermi mentre le big tech hanno raggiunto un grado di controllo dell’economia senza precedenti», dice l’ex capo economista alla concorrenza Ue, Valletti. A volte la posizione dominante di certe aziende viene data talmente per scontata da offrire loro spontaneamente nuove fette di mercato. Valletti cita il caso di DeepMind, società acquisita da Alphabet nel 2014 e che si occupa di intelligenza artificiale e sue applicazioni: «Un ospedale britannico ha consentito a DeepMind di prendere i dati dei pazienti del servizio sanitario nazionale senza il loro consenso per realizzare una app per la diagnostica. Non hanno nemmeno fatto una gara e hanno consegnato i dati di oltre due milioni di persone, questo vuol dire regalare un vantaggio competitivo e permettere di condizionare le tariffe del servizio sanitario». DeepMind è oggi interamente integrata in Google Health e la app con Android: cose che i regolatori non sapevano ai tempi dell’acquisizione. I rischi secondo l’ex capo economista della concorrenza Ue ci sono anche per l’imprenditore che vede le opportunità offerte dalle grandi piattaforme: «Loro creano la domanda e l’offerta. Puoi essere l’artigiano più bravo del mondo, ma l’algoritmo di Amazon può farti andare alla fine dei risultati e nessuno ti troverà mai. Amazon nell’e-commerce, Google nella ricerca, Facebook nei social hanno creato colli di bottiglia senza che ci prestassimo la dovuta attenzione».
Google finanzia tutti: ricercatori, editori, giornalisti
Quando parliamo di big tech ormai non parliamo solo di aziende, ma di ecosistemi digitali in cui si muovono gli altri attori. Nel 2018 Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente dell’Mba della Bocconi e professore di management consulting e digital strategy, e Giampaolo Coletti, che gestisce la comunicazione di Sanofi Italia, hanno pubblicato assieme al public policy manager di Google, Diego Ciulli, il libro G Factor. Storie di imprese italiane che crescono con Google. Maffè dice che il volume non è stato finanziato dall’azienda: «Abbiamo rinunciato ai diritti d’autore per spiegare alle piccole imprese le risorse di dati e le librerie open source che Google mette a loro disposizione. Ciulli ci ha facilitato nella ricerca dei casi». Dal 2019 Google ha avviato assieme a Unioncamere e all’Anpal anche un progetto per la formazione digitale degli iscritti al programma garanzia Giovani, nel 2020 ha annunciato un programma di investimenti sull’Italia che include la donazione di un milione di euro sempre a Unioncamere per la formazione delle imprese. Oltre che una “partnership” sui servizi cloud con Tim, la ex società pubblica e il principale operatore di mercato delle tlc che ha forte debito e limitate possibilità di investimento tecnologico.
Nel nostro paese Google finanzia anche gli istituti che fanno ricerca sul mondo del digitale. La borsa assegnata all’Istituto Bruno Leoni fa parte della fellowship public policy con cui Google permette a giovani studiosi di condurre ricerche all’interno di «organizzazioni di interesse pubblico in prima linea nei dibattiti su banda larga e politica di accesso, regolamentazione dei contenuti, copyright e creatività, privacy dei consumatori, governo aperto, sorveglianza governativa, sicurezza dei dati, innovazione dei dati, libertà di espressione e altro ancora». Le istituzioni vengono selezionate in precedenza e poi gli aspiranti ricercatori si candidano per ottenere la borsa. L’Italia è stata scelta come area per il lancio del programma pilota nel 2017 assieme ad alcuni paesi africani e a Bruxelles. Nel 2019 il programma si è esteso a 15 Paesi e in Italia ha finanziato due borse di studio, una all’Istituto per la Cultura dell'innovazione fondato da Albanese Ginammi che a sua volta aveva vinto la stessa borsa durante la prima edizione e l’altra all’istituto per le politiche dell’innovazione, fondato da Guido Scorza, attuale membro del collegio del garante della privacy. È normale che Google finanzi le ricerche dei think tank e dei giovani studiosi che trattano tutti i temi cruciali per il suo business?
Il meccanismo è simile a quello della Google News Initiative, con cui Google dal 2015 finanzia i migliori progetti innovativi nell’editoria digitale. L’iniziativa è nata anche sulla scia dello scontro che ha visto opporsi in diversi paesi dell’Unione europea le associazioni degli editori che chiedevano di essere pagati per i contenuti mostrati dal motore di ricerca. Il risultato è che Google è diventato il maggiore finanziatore dell’innovazione di un settore che non innova. Le sovrapposizioni, poi, possono essere ben più ingombranti. Dal 1 agosto 2018, per esempio, Fabio Vaccarono, dal 2012 managing director di Google Italia con alle spalle una carriera nei maggiori gruppi editoriali italiani, è entrato a far parte del consiglio di amministrazione del Sole 24 Ore, principale quotidiano economico italiano, quello dove i temi del libero mercato dovrebbero almeno in teoria trovare maggiore spazio.
Esattamente come per Amazon, anche per Google il sottosviluppo digitale rende l’Italia un mercato appetibile, con possibilità di espansione che altri paesi dell’Europa occidentale non offrono. È il ventre digitale molle d’Europa. «Assinform, l’associazione nazionale delle imprese di information technology, stima che dal 2020 al 2023 solo l’e-commerce crescerà del 7 per cento», dice lo studioso dei processi di lobbying Petrillo. «Una delle peculiarità di big tech è che è capace di creare coalizioni, e in questo caso unisce queste aziende la battaglia per l’espansione del mercato digitale. In altri settori come l’alimentare la concorrenza supera la comunanza di interessi, invece loro fanno lobbying cooperativa». L’altro fronte comune è quello del fisco: «Lì c’è totale comunità di intenti e lo dimostra la capacità ancora oggi di avere una tassazione agevolata. Inoltre possono contare come megafono dei loro interessi anche sulla rete diplomatica e culturale statunitense».
Chi lo ha sperimentato è il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, che nel 2013 era presidente della commissione bilancio della Camera ed è l’autore dell’emendamento che per la prima volta inseriva la web tax nella legge di bilancio. «Allora quello della tecnologia era un mondo che pretendeva di non rendere conto agli stati nazionali. All’inizio del 2013 con la web tax integrale, poi cancellata da Renzi (e reinserita in una forma differente nella legge di stabilità 2018 ma ancora non attuata, ndr), imponevamo alle società di aprire la partita Iva dove avevano una stabile organizzazione. È successo l'ira di Dio, sono stato insultato e minacciato. Ricordo tre comunicati della Camera di commercio italo-americana, talmente duri che poi si sono scusati, e un pranzo non molto cordiale con l’ambasciatore a Roma, David Thorne: “Cosa direbbe lei ad un ambasciatore italiano che dopo aver invitato a pranzo un deputato del Congresso gli dicesse di non fare una legge?”, mi ritrovai a chiedergli».
Oltre alla rete delle istituzioni «a opporsi furono soprattutto giornalisti che facevano da avvocati difensori agli interessi americani e ci dicevano che volevamo svuotare il mare con un secchiello, e poi professori universitari. Per me vale il principio: ognuno può avere la sua opinione, ma almeno non abbia mai fatturato un euro da queste multinazionali». Boccia dice che rifarebbe le cose in maniera diversa, ma è convinto che la direzione fosse giusta: «Lo dimostrano gli accordi che le aziende hanno sottoscritto negli anni successivi con l’agenzia delle Entrate». Da allora, riconosce Boccia, «queste società hanno fatto crescere team che si occupano delle relazioni istituzionali, hanno iniziato a parlare con il paese, a investire di più, ma sono ancora lontani nel pagare le imposte e la parte erosa aumenta sempre di più».
L’Italia nel frattempo non ha aumentato la sua cultura digitale. Il 15 luglio il ministro per lo sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha partecipato alla presentazione del libro bianco del Ced, il Centro per l’economia del digitale, una delle poche iniziative per elaborare una strategia complessiva per il paese. Il Ced ha come presidente di Rosario Cerra, ex presidente della Confcommercio romana, e presidente della società di consulenza strategica I Capital, e tra gli altri ha nel suo board due ex ministri, Giovanni Tria e Francesco Rutelli, oltre al vicepresidente di Confindustria, Maurizio Stirpe, e il presidente di Confindustria digitale, Cesare Avenia. «Il Ced è nato nel 2017 su iniziativa dell’università La Sapienza di Roma proprio per proporre una politica industriale sul digitale. Con Google e co. non abbiamo rapporti proprio per la natura del nostro centro, per capirci i nostri soci sono Leonardo, Eni, Enel», dice Cerra. Insomma, una politica del digitale fatta soprattutto in chiave nazionale, per e da i grandi campioni pubblici: si potrebbe dire un tentativo dei grandi del vecchio mondo di entrare nel nuovo campo disegnato dai giganti americani. Ma il problema dell’oligopolio e della proprietà dei dati, nell’era dell’incontro tra reti digitali e reti di energia, industria biotech, farmaceutica e servizi sanitari, va ben oltre lo scontro tra interessi industriali.
«ll punto», dice Valletti, «è che ci sono molte zone grigie non regolamentate, ma quando poi si identificano i problemi è difficilissimo tornare indietro, dire spacchettiamo Google. Big tech è un potere sovranazionale, comanda la nostra giornata, quello che possiamo dire, leggere, scrivere: bisogna essere molto scettici. E per gestire i dati serve un interlocutore pubblico forte, ma è necessario anche dal basso, a livello del cittadino, porsi delle domande sulle conseguenze delle nostre azioni». Manca soltanto qualcuno capace di fare lobbying nell’interesse delle persone.
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