La parola dimissioni non è più impronunciabile per il ministro al centro dei tutti i disastri del governo, dai migranti al decreto rave. La sua forza, però, non è solo il sostegno di Matteo Salvini, ma la sua carriera da prefetto, posizione che gli ha permesso di creare una potente rete di relazioni trasversali
- L’ultimo che ha garantito su Matteo Piantedosi è stato Pier Ferdinando Casini, ex presidente della Camera, che in passato, senza fortuna, aveva garantito anche su Totò Cuffaro.
- Piantedosi è un prefetto, un uomo dello stato prestato al ministero dell’Interno che nei primi mesi di governo ha parlato di migranti come «carico residuale» e fatto la paternale ai sopravvissuti di Cutro.
- Nonostante le pessime doti comunicative e gli scarsi risultati normativi, Piantedosi resta al suo posto non solo perché sponsorizzato politicamente da Matteo Salvini, ma perché, come molti prefetti, vanta una rete di relazioni ed estimatori non solo nella maggioranza politica che lo ha voluto al Viminale.
L’ultimo che ha garantito su Matteo Piantedosi è stato Pier Ferdinando Casini, ex presidente della Camera, che in passato, senza fortuna, aveva garantito anche sul collega di partito Totò Cuffaro, condannato poi per favoreggiamento alla mafia.
In questo caso la storia è diversa, Piantedosi è un prefetto, un uomo dello stato prestato al ministero dell’Interno, che nei primi mesi di governo ha parlato di migranti come «carico residuale» e ha fatto la paternale ai sopravvissuti di Cutro mentre i soccorritori ancora raccoglievano cadaveri, anche di bambini, sulla spiaggia.
Nonostante le pessime doti comunicative e gli scarsi risultati normativi, a partire dal decreto rave, Piantedosi resta al suo posto non solo perché sponsorizzato politicamente da Matteo Salvini, ma perché, come molti prefetti, vanta una rete di relazioni ed estimatori non solo nella maggioranza politica che lo ha voluto al Viminale.
«Conosco Piantedosi da 40 anni, è una persona perbene, non ispira sentimenti negativi e non può ispirarli perché lo conosco intimamente. Ha detto una frase inopportuna», ha rassicurato a La7 il senatore Casini, bolognese, eletto nelle liste del Pd.
Quelle dell’ex presidente della Camera sono parole di vicinanza, ma indicano anche la città chiave nella carriera dell’attuale ministro dell’Interno: Bologna.
Piantedosi è originario della provincia di Avellino ma ha trovato nel capoluogo emiliano la sua roccaforte di relazioni, dove ha espresso la sua professionalità e incrociato chi gli ha aperto le porte del Viminale.
Gli anni difficili a Bologna
Piantedosi è arrivato da funzionario in città nel lontano 1989 ed è rimasto a Bologna per circa due decenni occupandosi di amministrazione, sicurezza pubblica e, per otto anni, ricoprendo l’incarico di capo di gabinetto.
Sono gli anni nei quali entra in contatto con ambienti molto diversi, stimato dal sindacalista-poliziotto Gianni Tonelli, poi senatore in quota Lega, apprezzato da Annamaria Cancellieri quando diventa commissaria straordinaria del comune di Bologna, nel 2010.
Ma proprio nel capoluogo emiliano, quando l’attuale ministro era un giovane funzionario non ancora quarantenne, è stato ucciso dalle nuove brigate rosse il giuslavorista Marco Biagi. Era il 19 marzo del 2002.
Il professore più volte aveva sollecitato anche in prefettura attenzione e protezione, prima di essere ammazzato sotto casa.
Una vicenda che il nostro compianto collega, Enrico Fierro, riassumeva così sulle pagine dell’Unità di allora: «Anche il prefetto (di Bologna, ndr), quindi, sapeva. Ma la prefettura bolognese ha sempre smentito, e con fastidio, ogni notizia sulle richieste del professor Biagi. Il 24 marzo di quest’anno (2002, ndr), Matteo Piantedosi, capo di gabinetto della prefettura, rilascia questa dichiarazione: “Smentisco nella maniera più categorica che nei mesi scorsi il professor Biagi abbia chiesto un incontro in prefettura per il problema della scorta e tanto più che questo colloquio sia avvenuto”».
La vicenda porterà alle dimissioni del ministro dell’Interno, Claudio Scajola, che aveva parlato di Biagi come di un «rompicoglioni».
Torniamo a Piantedosi. Nel 2010 ha incrociato Annamaria Cancellieri, diventata commissaria del comune di Bologna dopo le dimissioni del sindaco Flavio Delbono.
Insieme hanno gestito quella fase delicata della città e si sono poi ritrovati al Viminale. Quando Cancellieri è diventa ministra dell’Interno nel governo dei professori, guidato da Mario Monti, ha nominato Piantedosi vicecapo di gabinetto.
Un secondo incarico è arrivato, nel 2012, quando il governo lo ha nominato vicedirettore generale della pubblica sicurezza per l’attività di coordinamento e pianificazione delle forze di polizia. Piantedosi è tornato per una breve parentesi a Bologna come prefetto e poi ha assunto l’incarico di capo di gabinetto al Viminale.
Un ruolo che ha ricoperto prima con il ministro Matteo Salvini, dove ha licenziato i decreti sicurezza, e poi con Luciana Lamorgese che lo ha nominato prefetto di Roma, nel 2020, dove ha stretto buoni rapporti con Virginia Raggi, M5s, e Nicola Zingaretti, Pd.
Il centro, la destra, i tecnici e anche la sinistra: in tanti apprezzano la figura del prefetto-ministro. Anche chi lo ha preceduto ha goduto dei privilegi che questa doppia identità garantisce: anche Lamorgese, nonostante i disastri, è rimasta al suo posto fino all’ultimo giorno.
Il vestito da moderato, di famiglia democristiana, male si attaglia sulla figura di Piantedosi, che ha preparato i decreti sicurezza da capo di gabinetto di Matteo Salvini, da ministro ha firmato il decreto rave, poi corretto in parlamento, prima di definire i migranti carichi residuali e di bollare come irresponsabili i richiedenti asilo che mettono i figli sui barconi in condizioni di insicurezza.
Parole che hanno suscitato indignazione e richiesta di un passo indietro da più parti. Nelle prossime ore Piantedosi riferirà alla Camera e poi al Senato, ma non sono state presentate mozioni di sfiducia nei suoi confronti. Al momento resta al Viminale, anche se la parola dimissioni non è più impronunciabile.
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