Esplodeva cinquant’anni fa, la bomba di piazza della Loggia a Brescia: alle 10.12 del 28 maggio 1974, uccidendo otto tra uomini e donne (cinque insegnanti iscritti ai sindacati, due operai, un pensionato che era stato partigiano) e ferendone un altro centinaio. Vittime simbolo della difesa della Costituzione. L’avevano collocata in un cestino dei rifiuti, sotto il colonnato (lo sfregio al marmo è lì ancora oggi a ricordare quanto avvenne), e seminò morte proprio durante una manifestazione sindacale antifascista, in una città in cui da settimane attentati e provocazioni si ripetevano senza sosta.

Appena nove giorni prima era saltato in aria un giovane estremista di destra, Silvio Ferrari, in piena notte, mentre trasportava un ordigno in motorino. Quando quella mattina del 28 maggio la bomba esplose in piazza, stava parlando Franco Castrezzati, della Cisl: il suo intervento fu interrotto dallo scoppio, e la registrazione ancora oggi restituisce, dopo mezzo secolo, il suo grido disperato «State calmi» alla folla terrorizzata.

Oggi a Brescia, per il cinquantesimo anniversario della strage, ci sarà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in una ricorrenza che da sempre la città e i sindacati vivono gelosamente, e che quest’anno rappresenterà il culmine di settimane di eventi organizzati dalla Casa della memoria animata da Manlio Milani. Molto più di una associazione di familiari di vittime, lo stesso nome sta a testimoniarlo: la sua opera di testimonianza, lo sanno bene magistrati, storici e giornalisti, si è infatti concretizzata da tempo in un instancabile lavoro di raccolta e digitalizzazione di milioni di atti giudiziari relativi a tutte le vicende più drammatiche della storia del Paese.

Complicata come forse nessun’altra, la parabola giudiziaria di piazza della Loggia si è dipanata nei decenni attraverso più istruttorie e addirittura sedici processi. Dopo il primo, chi era stato condannato (Ermanno Buzzi) ed era in attesa dell’appello venne strangolato nel 1981 in carcere dai neofascisti Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Un «cadavere da assolvere», verrà poi definito. Solo in anni recenti la parabola sembrava essersi conclusa con l’identificazione di due colpevoli: il medico veneziano Carlo Maria Maggi, leader di Ordine nuovo nel Triveneto, e il padovano Maurizio Tramonte, pure lui ordinovista ma anche confidente del Sid, l’allora servizio segreto militare (fonte “Tritone”), entrambi condannati all’ergastolo nel 2015 con conferma definitiva della Cassazione due anni più tardi. Maggi scontò la pena ai domiciliari per ragioni di salute, fino alla sua morte nel 2018, mentre Tramonte, oggi settantenne, ha annunciato una seconda richiesta di revisione del processo, dopo che la prima era stata respinta.

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Due ulteriori procedimenti

Al di là di quest’ultima eventuale coda, la parabola si è però riaperta negli ultimi mesi con due ulteriori procedimenti che stanno per prendere il via: quelli nei confronti di altri due ordinovisti, Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, entrambi veronesi. Il primo all’epoca dei fatti era addirittura sedicenne, e infatti nel suo caso procederà il Tribunale dei minorenni. Toffaloni è oggi cittadino svizzero (con un nuovo nome: Franco Maria Muller), Zorzi vive negli Stati Uniti (di cui pure ha assunto la cittadinanza) dalle parti di Seattle, dove si occupa di cani dobermann in un allevamento dal nome che è tutto un programma, “del Littorio”: la Procura li ritiene gli esecutori materiali, coloro i quali cioè piazzarono la bomba in quel cestino dei rifiuti.

Una foto di quella mattina ritrae il primo sulla scena della strage, dopo l’esplosione: mentre Giampaolo Stimamiglio, pure lui ex ordinovista veronese e uno dei principali collaboratori di giustizia sulle cui dichiarazioni si basa l’inchiesta (che ha dovuto affrontare mille reticenze), afferma di averne ricevuto confidenze circa la sua partecipazione. Quello di Toffaloni è tra l’altro un nome che chi conosce le vicende di Ludwig, i neonazisti veronesi Wolfgang Abel e Marco Furlan, ha già sentito nominare.

In quel 1974 la tenuta dell’allora giovane democrazia italiana (neppure trent’anni erano passati dalla fine della Seconda guerra mondiale, è un elemento che andrebbe sempre ricordato per contestualizzare quella stagione) venne messa a dura prova: fu l’anno delle inchieste sulle trame eversive della Rosa dei venti e del “golpe bianco” di Edgardo Sogno, con la prima che portò anche all’arresto dell’allora capo del Sid, il generale Vito Miceli. Ma anche l’anno dell’ammissione da parte del governo che Guido Giannettini (allora inquisito per la strage di piazza Fontana) era un uomo proprio del Sid. E poi un’altra strage ad agosto, quella del treno Italicus: diciassette morti, ancora oggi senza giustizia.

L’inchiesta infinita sulla bomba di piazza della Loggia, con la sua interminabile scia di sospetti e di veleni, apre oggi un ulteriore squarcio su quella tremenda stagione, rivelando – almeno nella ricostruzione della procura – ulteriori livelli al di sopra di quello degli esecutori: come sempre quello delle complicità di uomini dello Stato (ufficiali dei carabinieri, uomini dei servizi segreti), una costante nelle inchieste sulle stragi, ma anche più su, visto che, nello scenario prossimo a essere dibattuto in aule di tribunale, un luogo chiave risulta essere quello del comando Ftase (cioè la Nato) di Verona. Ma anche una caserma dei carabinieri a Parona, alle porte del capoluogo scaligero, e pure la sede veronese del controspionaggio: tutti luoghi in cui la strage di Brescia sarebbe stata organizzata e messa a punto.

Un’altra teste ha pure parlato di fotografie (peraltro mai rintracciate) che ritrarrebbero fianco a fianco terroristi e divise in quegli incontri preparatori. Ma appunto: sospetti e veleni. Come quelli che nelle ultime settimane hanno investito il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, il principale investigatore di questa inchiesta infinita (ma anche anni prima per piazza Fontana), accusato di molestie e stalking da parte di Donatella Di Rosa, la celebre “lady Golpe” degli anni Novanta, pure sentita nell’ambito delle indagini per via di propri legami con altri personaggi della vicenda.

Una “tegola” i cui effetti sui prossimi dibattimenti non vanno sottovalutati.

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