«Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è neppure passato», la famosa citazione di William Faulkner, che si riferiva al suo sud, alla nostalgia per un passato travolto dalla guerra civile, che il suo sud aveva perso, si presta al 52esimo anniversario che ci apprestiamo a ricordare, quello della ormai mitica “strage di piazza Fontana”. 

Quella bomba – ai tempi inaudita – ma lo sarebbe anche oggi? – che picchiò l’Italia come un martello per decenni, trasformandola in peggio.

Erano tempi di un’Italia feroce che si inventò i ballerini anarchici affetti da zoppia, i ferrovieri anarchici che si suicidano gettandosi dai piani alti della questura di Milano mentre gli onesti questurini cercano di salvarli.

Era l’Italia che accusava un editore comunista di finanziare una rivoluzione filo cubana, e nello stesso tempo andava ad Atene a farsi spiegare come si organizza un colpo di stato.

Quell’Italia del fascismo mai morto che comandava il Viminale e i servizi segreti e di cui tutti, governanti democristiani per primi, avevano molta paura.

Tutto questo non è morto e sepolto. Vive solo, alla Faulkner, nel nostro ricordo imperfetto, nella nostra nostalgia? Potrebbe ripetersi? Suvvia, andiamo. No, siamo ormai vaccinati. Ma “vaccinati” è però diventata una parola “divisiva”, di questi tempi.

Il generale

Per raccontare quel passato, mi viene in aiuto una notizia di pochi mesi fa, la morte di un vetusto generale italiano, giustamente trattata dai media come la fine della “carcassa polverosa” del cane Bendicò, testimone delle grandezza e decadenza del principe di Salina, ovvero una cosa inutile.

Mi riferisco alla morte, a quasi cent’anni, di uno degli ultimi protagonisti di quel passato feroce, che risponde al nome di Gian Adelio Maletti, generale dell’esercito ed ex direttore del reparto D del Sid, il nostro controspionaggio, che dal 1980 viveva in una sorta d’esilio dorato in Sud Africa, dopo aver subito una (mite) condanna legata appunto alla strage di piazza Fontana.

Per che cosa era stato condannato? Per avere protetto i veri autori della strage – persone dei servizi e membri di un gruppo nazifascista – fornendo loro documenti falsi, la loro sistemazione all’estero, e naturalmente garantendo loro lo stipendio.

Maletti era stato un uomo dall’enorme potere, e non era una figura banale: piemontese, laureato all’accademia militare di Modena, figlio di un generale dell’esercito che aveva fatto carriera con le guerre di Benito Mussolini – e ancora legato a quel mondo e a quel modo di pensare – divenne un alto dirigente dei nostri servizi segreti, a cui faceva riferimento una parte importante della nostra industria, in particolare la Montedison (l’Eni, invece, faceva riferimento al generale Vito Miceli, anche lui simpatizzante fascista, che di Maletti era il concorrente).

Maletti non era una spia, era una super spia: alto, biondo, occhi azzurri, glaciale, dinamco,  lo troviamo, per esempio, ad Atene nel 1967, a fare da chaperon a un gruppo di nazifascisti italiani venuti ad apprendere le tecniche di un colpo di stato.

C’era una certa simpatia all’idea del colpo di stato, in quegli anni, in Italia, specie dopo che, prima un movimento di studenti, poi un colossale movimento di operai (“l’autunno caldo”) rischiavano di rendere l’Italia quel paese moderno, laico e progressista; cosa che allora molta Italia certo non era.

Occorre anche dire che, se questo fosse avvenuto, non sarebbe stato chissà poi quale sorpresa. A quel tempo mezza Europa era fascista: dal Portogallo alla Spagna alla Grecia, e pure la Francia di Charles de Gaulle aveva tentennato, spaventata dalle conseguenze della sconfitta in Algeria e poi dal maggio del ‘68.

Publifoto Press Torino/LaPresse

La bomba

In questo clima scoppiò la bomba. Un evento mostruoso: nel centro di Milano, a pochi giorni dal Natale, vittime designate agricoltori, sensali di granaglie e di bestiame che, come da tradizione si trovavano alla Banca nazionale dell’agricoltura (terzo istituto di credito nazionale, con un management e dei clienti di orientamento nettamente fascista) il venerdì pomeriggio per fare i loro affari.

Il generale Maletti, nel corso dei decenni, fu considerato il depositario principale dei segreti di quell’epoca, ma non parlò mai.

E la giustizia presto si stancò di lui, lasciandolo indisturbato nel suo “esilio” a Johannesburg. Aveva però una sorpresa, il generale, che conto di servirvi alla fine di questo articolo.

Ma prima, un breve riassunto di come andarono le cose, che si dividono in due – due passati, direbbe Faulkner, nessuno dei due morto e sepolto, e nemmeno passato.

La prima “narrazione”

Il primo è semplice, è la “storia ufficiale”: la bomba l’hanno messa gli anarchici, lo annuncia il questore di Milano in una conferenza stampa.

È opera di un gruppo finanziato dall’editore Giangiacomo Feltrinelli. Segue vasta retata. Dopo 48 ore spunta un supertestimone, il taxista Cornelio Rolandi che riconosce in tale Pietro Valpreda, anarchico, di professione ballerino, l’uomo che lui stesso ha trasportato sulla sua Fiat 600 multipla, per 110 metri (avete capito bene: 110 metri) da una parte all’altra di piazza Fontana.

1969 Archivio Storico Pietro Valpreda (Milano, 29 agosto 1933 – Milano, 6 luglio 2002) è stato un anarchico, scrittore, poeta e ballerino italiano, noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto. Nella foto: processo anarchici, Pietro Valpreda

Aveva con sé una borsa. Il taxista lo ha riconosciuto in una foto che gli ha mostrato il questore. Tanto basta: Valpreda viene catturato addirittura dentro il palazzo di giustizia di Milano.

Invece di fuggire, si era premurato di recarsi a parlare con un giudice che lo aveva convocato per chiedergli conto di un volantino contro i preti, “vilipendio alla religione”.

Valpreda, che era sì anarchico, ma anche timoroso della legge, era partito da Roma dove abitava, con la sua Fiat 500, aveva dormito in macchina, si era beccato l’influenza (mezza Italia era a letto per l’asiatica) pur di essere presente dal giudice. E lì, davanti al suo ufficio, lo fermano. Mica la polizia, gente in borghese venuta da Roma.

Lui e il taxista vengono portati in fretta e furia a Roma per un confronto. E perché non farlo a Milano? Boh. Una brillante operazione di polizia, di cui gli italiani dovrebbero essere grati.

La notte del 16 dicembre

Nella notte del 16 dicembre, succede però un fatto strano. Un uomo viene trovato agonizzante  nel cortile della questura di Milano.

Si chiama Giuseppe Pinelli, 40 anni, ferroviere, sindacalista, animatore di circoli anarchici, sposato con due figlie piccole.

Il questore di Milano, Marcello Guida, convoca i giornalisti nella notte e dichiara: «Si è suicidato. Era fortemente indiziato, ed aveva appreso della confessione di Valpreda».

Per il questore il suicidio di Pinelli è la prova della bontà delle indagini che hanno portato a Valpreda. Poco prima, in diretta televisiva Rai, allora a canale unico, intervistato da un giovanissimo Bruno Vespa, il questore Parlato aveva annunciato che il «mostro»  che aveva messo la bomba era Valpreda.

La telecamera aveva indugiato su una squadra di funzionari, «una fruttuosa collaborazione tra polizia e carabinieri».

A Roma, in un «drammatico confronto» il taxista ha dunque riconosciuto Valpreda. Se non si fosse “suicidato” Pinelli sarebbe stato arrestato pure lui. Peccato che si sia sottratto alla giustizia.

Praticamente nessuno mise in dubbio questa versione dei fatti.

Il caso era chiuso. Il novanta per cento dell’Italia (ma forse qui esagero: c’era anche allora un’Italia profonda e buona) era convinto che quella fosse la verità; era contento di avere una polizia efficiente; era assolutamente certo che, se un pericolo corresse la nostra democrazia, questo veniva dall’estrema sinistra, dall’anarchia, dai liberi costumi che si erano instaurati, da quell’assurdo alzare la testa delle classi subalterne.

Era l’Italia che un giovane cantautore romano, Paolo Pietrangeli, aveva messo in berlina in una canzone che i ragazzi cantavano. Era l’Italia delle Contesse, scandalizzate che «l’operaio vuole il figlio dottore».

E siccome la dicevano, in coro, governo, magistratura, Rai tv e Corriere della Sera, non poteva che essere la verità. Di altro non c’era molto, tranne le scritte sui muri.

Gli arresti del 1972

Così passò il 1969, e poi il 1970, e poi il 1971, e poi il 1972, quando per la bomba di Milano vennero arrestati (non da parte della procura di Milano, né da parte di quella di Roma a cui il processo era stato incredibilmente trasferito) due apparentemente sconosciuti appartenenti a Ordine nuovo, tali Franco Freda e Giovanni Ventura, figli del profondo Veneto democristiano e aggressivamente nazifascisti.

Beh, che c’è di strano? Spiegò la magistratura che erano colpevoli tutti due, gli anarchici e i nazifascisti, che Valpreda pensava di mettere una bomba per finta, mentre gli altri mettevano quella vera; o che c’erano state due bombe, o  che i nazi e gli anarchici erano in realtà la stessa cosa.

Insomma, una serie di panzane che ancora oggi si fa fatica a credere come potessero essere credute.

La lentissima scoperta di un’altra verità

L’altra storia si venne a sapere nel tempo, superando ipocrisie e non pochi pericoli. È la storia di un lungo piano, volto a riportare l’Italia al regime che le era più consono: il fascismo.

È animato da una vasta nomenclatura dello stato, nelle stesse forze armate e nei corpi di polizia e dei carabinieri, che alligna dentro il partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, ed è sostenuto da una parte dell’industria italiana, purtroppo numerosa. Degli agrari, manco a parlarne, quelli sono rimasti gli stessi del 1922.

L’“evento” di Milano era stato lungamente preparato, allo scopo di creare un clima di paura su cui instaurare un governo autoritario.

Allo scopo erano stati finanziati due gruppi di tendenza nazifascista, Ordine nuovo, fondato da Pino Rauti, e Avanguardia nazionale diretto da Stefano Delle Chiaie.

Il loro compito era di preparare il terreno per un colpo di stato. Ordine nuovo, nella sua filiale veneta – la più tragicamente feroce e motivata nel razzismo e nell’antisemitismo – fu il gruppo più svelto a passare all’azione.

Il 12 dicembre si acollarono il compito della bomba più grande, quella di Milano, mentre ad An lasciarono le tre bombe di Roma.

Il loro finanziatore aveva un nome: divisione Affari riservati del ministero dell’Interno, una sorta di “superpolizia” e di servizio segreto civile, dotato di considerevoli somme per azioni di intelligence che si incaricò di gestire  l’operazione.

Valpreda e Pinelli, come si verrà a sapere trent’anni dopo, erano stati individuati già all’inizio del 1969, come i colpevoli designati. Le prove generali dell’operazione furono gli attentati alla Fiera di Milano il 25 aprile 1969 e le bombe ai treni nell’agosto dello stesso anno.

Per ambedue gli attacchi, portati a termine personalmente dai dirigenti di Ordine nuovo Franco Freda e Giovanni Ventura, gli Affari riservati e la questura di Milano “scannerizzarono” un gruppo di anarchici (che vennero arrestati) e il ferroviere Pinelli, il cui telefono venne messo sotto controllo.

Come spesso succede nei grandi attentati, qualcosa andò storto. Una seconda bomba, alla banca Commerciale di Milano, venne scoperta prima che esplodesse. E soprattutto, alla questura di Milano, il colpevole numero due gli morì tra le mani.

Ma i servizi erano efficienti. La borsa della seconda bomba fu fatta brillare, distruggendo così le prove che conteneva; e per quanto riguarda Pinelli, era suicidio.

Negli stessi giorni una commessa di un negozio di Padova dove erano state acquistate le borse dei due attentati di Milano, andò dalla polizia, che non le diede retta.

E a Treviso, un giovane professore di francese, Guido Lorenzon, andò, piuttosto sconvolto, da un avvocato per dirgli che Giovanni Ventura (Ordine nuovo) gli aveva rivelato particolari e dettagli degli attentati, che lui stesso aveva organizzato. Non venne creduto, per buoni due anni e mezzo.

La procura di Milano ben volentieri accettò di spogliarsi dell’indagine. La questura, per la morte di Pinelli, si dichiarò completamente innocente; e venne creduta.

La stessa questura, poi, sospettata di avere avuto a che fare con la morte di Pinelli, divenne martire quando venne ucciso il commissario Luigi Calabresi (1972) che era stato messo sotto processo per omicidio dalla stessa procura di Milano, in un suo breve momento di integrità.

E a provare che ci fosse davvero una pista anarchica provvidero di nuovo gli Affari riservati, armando la mano di uno psicopatico, l’anarchico Gianfranco Bertoli, che gettò una bomba proprio dentro la questura (1973) mancando, di non molto, il suo obiettivo, il ministro dell’Interno Mariano Rumor, e comunque lasciando sul terreno quattro morti e 52 feriti.

L’anno dopo, bontà del ministro degli interni dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, gli Affari riservati vennero sciolti; ma dovevano passare ancora vent’anni prima che il loro ruolo nella strage di Milano si delineasse meglio.

Riaprire i fascicoli

Successe che, dopo una generazione di giudici molto compiacenti, qualcuno più giovane, riprendesse interesse alla bomba e al caso Pinelli; sulla bomba la procura era stata straordinariamente inetta; su Pinelli il caso era stato chiuso nel 1975 quando il giudice Gerardo D’Ambrosio – un giudice comunista, poi diventato un eroe di Mani Pulite – aveva sentenziato che la sua morte era stata dovuta a un «malore attivo».

E però avvenne che giudici più giovani vollero riaprire i fascicoli. E interrogarono (giudice Grazia Pradella) le persone rimaste nell’ombra, ovvero quei misteriosi Affari riservati, scoprendo che avevano un capo, tale Federico Umberto D’Amato, all’epoca molto potente e un vicecapo operativo, tale Silvano Russomanno, un ex militare nazista diventato potentissimo manipolatore della stagione del terrore in Italia.

Russomanno venne convocato da Pradella. Seccato di essere interrogato da una donna, in uno scatto di arroganza, raccontò di essere stato presente alla morte di Pinelli.

E aggiunse che il suo Ufficio era arrivato subito dopo la bomba a Milano – in aereo da Roma, forte di 34 membri – per prendere in mano la situazione. Fisicamente, nella stanza del capo dell’ufficio politico della questura, il dottor Antonino Allegra, con la scrivania di fronte alla sua.

Strano: nessuno, di tutti i poliziotti interrogati nel corso degli anni, ne aveva mai parlato. In trent’anni, nessuno aveva visto quei 34 uomini. Tutti ciechi? Tutti distratti? O tutti complici?  

Nessuno se ne occupò, D’Ambrosio, ormai procuratore, men che meno. E neanche quelli che vennero dopo.

Ma visto che siamo alla fine del racconto, è giusto tornare al vecchio generale Maletti. Che non disse mai niente a legioni di magistrati che lo interrogarono, ma che si aprì, avvicinandosi al centenario, a due giovani e bravissimi giornalisti investigativi, Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini, che andarono a sentirlo a Johannesburg.

Il generale parlò loro per due giorni, qualcosa ammise. Poi, ritornarono da lui e gli chiesero se volesse dare la sua versione, per telefono questa volta, sulla morte di Pinelli. E qui il generale Maletti rispose: «Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade. La morte dell’anarchico non era voluta, tutti i presenti furono colti da sgomento e apprensione. La verità non li avrebbe sottratti da gravi sanzioni penali. Perciò si impegnarono ad avallare, per il bene proprio e delle istituzioni, la tesi del suicidio». Il generale aggiunse che questa ricostruzione era nota a tutti i vertici dei servizi segreti.

Mi hanno raccontato, Nerazzini e Sceresini, che il generale centenario era assolutamente compos sui quando rivelò ai due giovani il succo del mistero di piazza Fontana, ma che loro – sbobinando il testo registrato si accorsero che il risultato era scadente: disturbi sulla linea; per cui decisero di chiamarlo di nuovo, su Skype.

Il generale non fece nessuna difficoltà e ripeté parola per parola quanto aveva già loro detto. E così oggi la sua voce – tranquilla, nitida – la potete ascoltare su YouTube. Fa un certo effetto, credetemi.

Fu, in sostanza, il suo testamento; non privo, a mio parere, di una certa nobiltà. Mi sono ricordato di una storia che ho sentito raccontare da Marek Edelman; lui, un ragazzo, era l’unico sopravvissuto dell’insurrezione del ghetto di Varsavia; dopo la guerra, testimoniò al processo contro il generale tedesco Jurgen Stroop, che per vincere sulla rivolta aveva ordinato di radere al suolo il ghetto.

Ebbene, quando Edelman entrò in aula, Stroop si alzò, chinò la testa e sbattè i tacchi in segno di rispetto. E questo, al ragazzo Marek, non dispiacque.

Se fossimo stati un paese diverso, Freda, Ventura, D’Amato, Russomanno sarebbero stati arrestati nel giro di 48 ore: ma il governo di allora era molto fragile, se non colluso. Aveva paura di loro. Aldo Moro, che allora era ministro degli Esteri, lo spiegò nei dettagli ai suoi carcerieri.

Se avessimo avuto una magistratura coraggiosa e indipendente, lo scempio di giustizia cui abbiamo assistito per mezzo secolo, non sarebbe stato possibile: davvero, bastava poco. E invece si dimostrò inetta, paurosa, incapace.

Se avessimo avuto una polizia leale e non mendace “per difendere il bene proprio e delle istituzioni”, idem.

E invece andò avanti così. E quindi – visto che si poteva fare – dopo Milano ci fu Brescia e poi ci fu Bologna e poi cominciò la Sicilia e sempre quel fiume continuò a rispondere alla sorgente.

Di piazza Fontana ormai si sa tutto: chi, come, perché. C’è persino una pietra d’inciampo, in piazza Fontana, che fa il nome di Ordine nuovo. Il sindaco di Milano ha finalmente dichiarato Pinelli un innocente perseguitato, e il presidente Sergio Mattarella, nel cinquantenario, ha detto parole forti, non solo consolatorie.

E questo è un bene, una vittoria dell’opinione pubblica. Di quelli che “non ci hanno mai creduto”; della Milano che col suo «silenzio monumentale» ai funerali in piazza Duomo sventò le tentazioni di golpe; di due generazioni di studenti che per chiedere verità hanno marciato (a partire da quando era pericoloso, e forse non lo sapeva lo studente fuorisede Saverio Saltarelli, ucciso dalla polizia a Milano nel 1970); di alcuni magistrati coraggiosi, isolati e che non hanno fatto carriera; di alcuni giornalisti che non hanno mai smesso di indagare.

Dovrebbe essere finita, dunque. Non ci sono più materiali segreti da scoprire. Si sa tutto e si rimane attoniti per come sia stato possibile che tutto questo sia successo, senza che nessuno dei responsabili abbia mai, nemmeno, chiesto scusa. È solo un grande vuoto, il nostro passato faulkneriano.

Se fossi il nuovo presidente della Repubblica, nominerei senatrice a vita Licia Pinelli, perché senza di lei non si sarebbe mai raggiunta la verità.


Letture consigliate, da cinquant’anni fa a oggi.

Anni Settanta

Piero Scaramucci, Licia Pinelli – Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli La prima testimonianza della lotta, e dell’isolamento, della vedova Pinelli alla ricerca della verità sulla morte di suo marito.

Camilla Cederna – Una finestra sulla strage, Il Saggiatore 

La prima indagine italiana – alla Truman Capote – sul fatto di cronaca di cui era sconveniente parlare.

Fortunato Zinni – Piazza Fontana, nessuno è Stato, Maingraf edizioni

Un sopravvissuto racconta quello che vide e quello che capì: praticamente tutto e subito.

Anni Novanta

Adriano Sofri – Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, Sellerio

L’autore analizza genesi e conseguenze della famosa sentenza del giudice D’Ambrosio su una morte in questura.

Anni Duemila

Adriano Sofri – La notte che Pinelli, Sellerio

Un’indagine dei tre giorni che precedettero la morte dell’anarchico, e delle menzogne che la accompagnarono.

Gabriele Fuga, Enrico Maltini – Pinelli, la finestra è ancora aperta, Colibrì edizioni 

I due autori, di fede anarchica, svelano per la prima volta i clamorosi verbali di cui la procura di Milano non volle tener conto.

Paolo Morando – Prima di piazza Fontana, la prova generale, Laterza

Formidabile esempio di giornalismo d’inchiesta sugli attentati che precedettero piazza Fontana e sulla costruzione della pista anarchica.

Benedetta Tobagi – Piazza Fontana, il processo impossibile, Einaudi

Una ricerca rigorosa sulle incredibili avventure giudiziarie del processo per piazza Fontana, definiti «una torsione» della giustizia.

Paolo Brogi – L’innocente che cadde giù, Castelvecchi editore

Un’accurata ricostruzione della struttura degli Affari riservati e del loro ruolo nella strage di piazza Fontana.

Guido Salvini (con Andrea Sceresini) – La maledizione di piazza Fontana. L'indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati, Rizzoli

Il titolo dice tutto, l’autore è stato un magistrato inquirente; contiene la rivelazione che l’attentato del 12 dicembre venne filmato.

Giacomo Pacini, La spia intoccabile. Federico Umberto D'Amato e l'ufficio Affari riservati, Einaudi

Il primo libro – dopo 50 anni! – su quelli che ebbero molto a che fare sulle stragi.

Verso il 2030….

Massimo Pisa – Lo Stato della strage, Clueb editore

È uscito finora il primo volume, di mille pagine, ne sono previsti altrettanti cinque di uguale spessore. L’opera, che si basa sulla consultazione di un milione di documenti, ha qualcosa di eccezionale e boghesiano. Dice l’autore, giovane giornalista, che si è accollato un’impresa colossale:  «Queste che avete in mano sono cronache. Trame di geopolitica e microstorie di apparati e di persone. Ricostruzioni di colpe e di eroismi, singoli e collettivi. Di ragion di stato e di ribellioni a meccanismi infernali. Del lutto pubblico e privato delle vittime, dello shock emotivo di una generazione».

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