Nonostante il Covid, i lavoratori africani sono ulteriormente incrementati, ma per la loro accoglienza nessuno si sente responsabile. Anche durante la pandemia, gli italiani hanno evitato certi lavori
Secondo la recente elaborazione Apl su dati Silp, nel 2020 a fronte di 16.518 contratti attivati nei 38 comuni del saluzzese, 2.800 hanno riguardato i nostri connazionali: l’invasione dei campi da parte degli italiani non c’è stata.
Si è invece manifestato l’ennesimo incremento dei lavoratori africani, nonostante il Covid-19 e l’attenuarsi degli effetti deleteri dei decreti sicurezza del governo Conte I.
Sul campo è rimasto il problema dell’accoglienza dei lavoratori. I comuni non hanno obbligo di legge relativo all’accoglienza, mentre per le aziende le norme sono poco chiare e in ogni caso afferiscono alla sfera della sicurezza sul lavoro.
Ardono i fuochi nella notte, per scaldare chilometri di gemme di pesco appena sbocciate. Sono notti invernali quelle che da un paio di settimane assediano senza tregua il saluzzese, terra di approdi da tempo immemore: prima quelli delle valli del cuneese, poi i meridionali, poi gli est europei, poi i cinesi, poi gli africani e in ultimo, dicevano, gli espulsi dalla società del benessere causa pandemia mondiale.
Secondo la recente elaborazione Apl (Agenzia Piemonte lavoro) su dati Silp (Sistema informativo lavoro Piemonte), nel 2020 a fronte di 16.518 contratti attivati nei 38 comuni del saluzzese, 2.800 hanno riguardato i nostri connazionali: l’invasione dei campi da parte degli italiani non c’è stata.
Flusso continuo
Si è invece manifestato l’ennesimo incremento dei lavoratori africani, nonostante il Covid-19 e l’attenuarsi degli effetti deleteri dei decreti sicurezza del governo Conte I, che misero per strada un numero imprecisato di richiedenti e titolari di asilo che, da un giorno all’altro, dovettero trovare un contratto per restare in Italia. Gli effetti di quei decreti, oggi stemperati, furono visibili a occhio nudo nell’estate del 2019 quando presso il Punto accoglienza stagionali (Pas) di Saluzzo – una ex caserma trasformata dal comune in dormitorio e gestita dalla cooperativa sociale Armonia, in collaborazione con Cgil e Consorzio Monviso solidale – si presentarono uomini che non avevano mai raccolto una pesca o visto una pianta di mirtilli.
Escluso qualche raro caso non vi furono episodi di microcriminalità, ma la percezione di un mondo umanamente degradato e poco dignitoso si allargava: gli aspiranti lavoratori vagavano per le campagne in cerca di lavoro. Per accedere al Pas era necessario presentare un contratto, decisione dura presa per responsabilizzare il lavoratore e attaccare il caporalato, fenomeno questo che si manifesta l’ultima volta nel 2018 con il cosiddetto caso Momo. Ancora presente, nonostante i controlli e il cosiddetto servizio di sindacato di strada offerto dalla Cgil, la parte grigia: giornate pagate in nero, contributi e straordinari mal conteggiati.
Il Pas giunse ad avere 270 posti su cui girarono circa seicento persone, nel 2019. Poi arrivò il Covid e il panico si diffuse: chi avrebbe raccolto la frutta?
Prima gli italiani
Gli italiani sono arrivati in un primo tempo, maggio giugno 2020, ma poi hanno ceduto il posto ai lavoratori africani e non solo: questo perché, come noto, vasti ammortizzatori economici hanno coperto i settori più colpiti.
Sul campo è rimasto il problema dell’accoglienza dei lavoratori: non è dovuta rispetto ai cosiddetti flussi interni, cioè coloro che risiedono in Italia presso residenze “burocratiche” che spesso non corrispondono ad abitazioni reali. Differentemente da coloro che provengono dall’estero, i cosiddetti flussi esterni, che vantano tale diritto: in generale di tratta di lavoratori est europei del settore vitivinicolo delle Langhe.
La percezione del settore agricolo come refugium peccatorum mette le istituzioni locali, i comuni in prima linea di fronte all’esigenza di dare un tetto a masse di lavoratori nomadi, nonché di rassicurare la popolazione locale durante i periodi di maggiore spinta mediatica sul tema “invasione”.
I comuni non hanno obbligo di legge relativo all’accoglienza, mentre per le aziende le norme sono poco chiare e in ogni caso afferiscono alla sfera della sicurezza sul lavoro.
Nel 2020 si è consolidata la cosiddetta “accoglienza diffusa”, grazie al protocollo di intesa tra la regione Piemonte, la prefettura di Cuneo – divenuta capofila, quindi permettendo una presa in carico da parte dello stato – provincia di Cuneo, Comuni, associazioni datoriali di categoria del lavoro agricolo, forze dell’ordine, il terzo settore: tutto grazie ai fondi Fami del “Progetto Buona Terra” approvato e finanziato dalla direzione generale dell’Immigrazione, recentemente prorogato, e delle politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Numeri stabili
Fabio Chiappello, responsabile del progetto, fornisce i dati finali: le persone accolte in otto comuni – Busca, Costigliole, Cuneo, Saluzzo, Savigliano, Tarantasca, Lagnasco, Verzuolo – sono state 124 con 160 contratti totali. Nel 2019 furono 129.
Quindi i numeri sono più o meno stabili, tenendo presente che i posti a disposizione sono stati dimezzati causa pandemia, ma l’aumento dei comuni che aderiscono al progetto dell’accoglienza diffusa nel 2021 aumenterà i posti a disposizione.
È possibile sostenere che un numero non chiaro di lavoratori è stato anche ospitato in azienda, grazie ai fondi messi a disposizione dal comune di Saluzzo e dalla regione Piemonte, ma è altrettanto vero che durante la passata stagione di raccolta una parte di essi è rimasta per strada, circa 250 persone.
Davide Masera, segretario della Camera del lavoro della Cgil di Cuneo commenta: «Nel 2020 hanno aderito al progetto per l’accoglienza diffusa otto comuni: troppo pochi. Se ogni comune facesse la sua parte, potremmo garantire dignità ai lavoratori e costruire una rete funzionale, sostenibile per rispondere al bisogno di manodopera del territorio. Siamo coscienti del fatto che non tutti i lavoratori hanno trovato sistemazione ma, date le condizioni di partenza, quello ottenuto può essere considerato un buon risultato, seppure parziale. La nostra azione, insieme a quella delle istituzioni, ha fatto sì che nel 2018 le assunzioni regolari aumentassero del 25 per cento e nel 2019 del 53 per cento. Dati clamorosi che non hanno eguali in nessun altro settore».
In questi giorni cominciano ad arrivare i lavoratori africani che produrranno la frutta che finirà sulle tavole delle famiglie italiane: un chilo di pesche saluzzesi al mercato di porta palazzo di Torino, il più polare della città, sarà venduto a meno di un euro, dando la possibilità anche ai più poveri, moltissimi non italiani, di accedere a una alimentazione che, in una buona fetta del mondo occidentale, è condizione delle classi privilegiate.
Probabilmente nessun settore come quello agricolo compenetra le luci e le ombre dell’economia di mercato attuale.
A Dronero, piccolo paese il cui territorio è coperto da distese di filari di peschi già oggi si vedono decine di lavoratori africani nei campi e altri che girano in bicicletta alla ricerca di lavoro.
A tre mesi dalla fase acuta della prossima crisi, sempre che il gelo non tagli la produzione, è possibile prevedere che ci saranno uomini per le strade periferiche di Saluzzo, senza un lavoro e in cerca di un riparo, e laddove vi è l’assenza del diritto subentrerà la buona volontà: le condizioni più critiche saranno gestite dai servizi sociali, dal volontariato in generale, dalle forze dell’ordine e dalla Caritas locale.
I centri sociali organizzeranno dei cortei con i sindacati di base: gli africani, resteranno a guardare, la quasi totalità, questo “eterno ritorno del sempre uguale”.
Il sindaco di centrosinistra, Mauro Calderoni, eletto in un mare verde leghista e suggerisce una via d’uscita legislativa: «Le istituzioni locali non possono risolvere un problema di queste dimensioni da sole, e non può farlo il volontariato per quanto il suo apporto sia prezioso. Serve un netto cambio della normativa italiana che tolga il lavoratore dalla condizione di naufrago perpetuo. La proposta legislativa che nasce su questo territorio è doppia: cambiare la legge Bossi Fini relativamente ai flussi interni, primo. Secondo, creare una piattaforma pubblica, unica, che intersechi domanda e offerta di lavoro in Italia. Lo dico anche in maniera cruda: il mercato del lavoro selvaggio va fermato, chi si muove da un comparto agricolo all’altro necessita di un contratto in tasca al momento della partenza. Lasciare che degli esseri umani vaghino per le campagne con una bicicletta alla ricerca di un lavoro è anti storico, anti economico e poco dignitoso. Questi due passi legislativi sono gli unici che tolgono gli esseri umani dalla strada e stroncano il caporalato. Il resto, come facciamo noi qua, è gestione con l’acqua alla gola dell’emergenza permanente».
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