Ci sono mille chilometri che separano Firenze da Caltanissetta, una distanza che diventa incolmabile se si osservano le attività investigative dei due uffici inquirenti. Attività che aumentano i dubbi, riportano indietro le lancette a inchieste già aperte e poi chiuse con l’aggiunta di coinvolgere pezzi da novanta degli apparati di sicurezza pubblici. L’ultimo in ordine di tempo finito nel registro degli indagati, lato siciliano, è Giuseppe Pignatone, magistrato di lungo corso, oggi a capo del tribunale vaticano.

Mai entrato in sintonia con Giovanni Falcone che, nei suoi diari, non lo incensava di certo, Pignatone successivamente ha firmato inchieste importanti, come “Crimine” quando era capo a Reggio Calabria, “Mafia capitale” (poi diventata mazzetta capitale) quando è diventato numero uno a Roma.

Firenze e Caltanissetta

Due procure, due piste opposte, lo stesso obiettivo annunciato: scoprire la verità sulle ragioni della stagione stragista. La stagione iniziata con l’autobomba di via D’Amelio, quella nella quale la mafia e brandelli di altri poteri uccisero Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina. La stagione è poi finita con le bombe sul continente nel 1993.

Prima di raccontare la distanza incolmabile tra Firenze e Caltanissetta, c’è una domanda alla quale dare risposta: cosa c’entra Pignatone con l’indagine di Caltanissetta? Pignatone si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti ai pm nisseni che lo hanno indagato per favoreggiamento ai boss, reato peraltro che dovrà fare i conti con la prescrizione.

L’inchiesta riguarda un convitato di pietra della stagione delle stragi, immancabile, un evergreen: il dossier Mafia-appalti. Quel dossier che secondo alcuni, compresi alcuni familiari di Borsellino, potrebbe essere la ragione segreta della strage di via D’Amelio. Più precisamente l’indagine della procura di Caltanissetta punta l’indice contro il presunto insabbiamento dell’inchiesta sui boss Francesco Bonura e Antonino Buscemi e i loro rapporti con il gruppo Ferruzzi.

A riaprire il capitolo, già aperto e chiuso più volte in passato, era stato l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, in commissione antimafia. Un’audizione che aveva indicato in Gioacchino Natoli, magistrato in servizio alla procura di Palermo e collega di Giovanni Falcone, l’autore della richiesta di smagnetizzare le intercettazioni dei fratelli Buscemi. Proprio Natoli, che ha sempre ribadito la correttezza del suo operato, è il primo indagato eccellente dell’inchiesta della procura nissena, neanche lui ha risposto ai pubblici ministeri.

È accusato, con l’allora procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco, indicato come istigatore, e l’allora capitano Stefano Screpanti, oggi generale della Finanza, esecutore materiale, di aver aiutato «Antonino Buscemi, Francesco Bonura, Ernesto Di Fresco nonché Raoul Gardini, Lorenzo Panzavolta, Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del cosiddetto gruppo Ferruzzi) ad eludere le investigazioni dell’autorità». I pm nisseni hanno ascoltato anche Screpanti, che ha risposto alle domande. Sono tutti accusati di aver imbastito un’indagine apparente, nell’invito a presentarsi per Natoli si legge anche che non furono trascritte intercettazioni particolarmente rilevanti, «da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato». Pignatone ha fatto sapere che chiarirà ogni aspetto, «mi riprometto di contribuire, nei limiti delle mie possibilità, allo sforzo investigativo della procura di Caltanissetta», ha detto all’Ansa.

Ora c’è un’altra domanda alla quale rispondere, cosa c’entra in tutto questo Firenze e perché le due attività investigative aumentano i quesiti? Il dossier Mafia-appalti, al quale ha dedicato anche un libro, è il cavallo di battaglia del generale dei carabinieri, già capo dei Ros e dei servizi segreti, Mario Mori. Nel libro il nome di Pignatone spunta 28 volte, emergono i dissidi, le divergenze, vicende finite anche in procedimenti penali per diffamazione poi finiti con l’archiviazione. Eppure basta percorrere mille chilometri per ribaltare tutto, stravolgere il quadro, cambiare il ruolo dei protagonisti.

Il caso Mori

Se Caltanissetta indaga pezzi da novanta della magistratura su quella indagine che sarebbe stata annacquata favorendo i boss, Firenze ha iscritto nel registro degli indagati Mario Mori.

Proprio lui. Santo o diavolo? Buono o cattivo? Secondo i pm, Mori era a conoscenza del rischio stragista, le bombe sul continente, avendo avuto plurime anticipazioni, ma non ha fatto niente per evitarlo.

Lo avrebbe saputo «dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di Cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa e, successivamente, da Angelo Siino, che lo aveva appreso da Antonino Gioè, da Gaetano Sangiorgi e da Massimo Berruti (ex manager berlusconiano e poi parlamentare di Forza Italia, morto nel 2018, ndr), durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord», si leggeva nell’invito a comparire.

Mori, già sentito lo scorso anno come persona informata sui fatti, ha commentato dicendosi «profondamente disgustato da tali accuse che offendono, prima ancora della mia persona, i magistrati seri con cui ho proficuamente lavorato nel corso della mia carriera nel contrasto al terrorismo e alla mafia, su tutti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».

Firenze e Caltanissetta due procure, due orizzonti e una certezza: la verità più che avvicinarsi sembra svanire.

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